In Evidenza Susi Ronchi: “La violenza sulle donne va raccontata, non spettacolarizzata”

Susi Ronchi: “La violenza sulle donne va raccontata, non spettacolarizzata”

Nella giornata internazionale dedicata all’eliminazione della violenza sulle donne, abbiamo deciso di parlare del tema insieme a Susi Ronchi, giornalista e fondatrice di Giulia Giornaliste

Crediti foto: Liquida Festival / Simone Sechi

Ogni anno, il 25 novembre, il mondo si unisce per ricordare che la violenza contro le donne è una ferita collettiva, talvolta silenziosa, che continua a segnare profondamente la società.

In Italia e in Sardegna, i numeri e le testimonianze raccontano una realtà complessa, fatta di grande dolore, sofferenze nascoste, ma anche di coraggio e di resistenza.

Abbiamo deciso di parlare del tema insieme a Susi Ronchi, giornalista, fondatrice di Giulia Giornaliste e figura di riferimento nel panorama dell’informazione sarda, con un forte impegno per la comunicazione responsabile e l’uguaglianza di genere.

Due anni fa Giulia Cecchettin veniva uccisa barbaramente dal suo ex compagno. Cosa è rimasto e cosa è cambiato in tutto questo tempo nella società?

Non esiste un femminicidio più doloroso di un altro. Non esistono violenze che abbiano valori differenti tra loro perché sono frutto di una medesima matrice. L’incultura del rispetto verso le donne coinvolge generalmente uomini di casa. Uomini che agiscono tra le mura domestiche, compagni, mariti, partner, ex. Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha contribuito ancora di più a colpire l’opinione pubblica, a scatenare reazioni contro la violenza. Ad aprire un dibattito pubblico. È stato un atto inaccettabile e barbaro nei confronti di una donna, in questo caso di una ragazza. Giulia aveva appena 22 anni e l’età non è e non è stato un dettaglio da poco per scandagliare la correttezza deontologica e l’etica del racconto di questo femminicidio. E purtroppo la cronaca non è stata sempre e del tutto rispettosa della vittima. Abbiamo assistito allo sfruttamento dell’immagine della ragazza. È stato saccheggiato l’album fotografico con una selezione di scatti alquanto discutibile. Lei e lui felici che si baciano anche nel luogo del massacro, ad esempio. Senza che questo aggiungesse nulla all’essenzialità della cronaca, ma che offendeva la vittima e la famiglia. Cosa è cambiato da allora? Certamente sono cambiate diverse cose: per esempio la consapevolezza, la responsabilità, la presa di coscienza e l’uso delle parole giuste per raccontare la cronaca di un femminicidio. Sono certamente parametri in crescita nel mondo dell’informazione. Ne parliamo tanto nei corsi di formazione per giornalisti, ne parlano i convegni: sono temi diventati centrali.

Si parla tanto di femminicidi e violenza sulle donne, eppure il problema sembra non attenuarsi. C’è qualcosa che si sta sbagliando nel raccontare questi fatti?

La cronaca è un diritto e dovere dei giornalisti e delle giornaliste. Il racconto dei fatti non va mai censurato ma va sviluppato attraverso la scelta delle parole corrette, che da un lato rappresentino i fatti per come si sono svolti. Dall’altro però evitino quella che si chiama la vittimizzazione secondaria, aggiungendo al racconto elementi di spettacolarizzazione e di sensazionalismo che niente apportano alla completezza della notizia, ma che invece mettono in cattiva luce – per dirlo semplicemente – la vittima, come a giustificare che ciò che le è accaduto se l’è cercata. Questi delitti che spezzano vite, che coinvolgono nel grande dolore famiglie intere, sono ferite profonde per una società che ancora non riesce a far affermare completamente i principi e i valori dell’equità, della parità, del rispetto. E se non si radicano questi principi base nelle personalità fin da bambini, non possiamo sperare di far crescere ad adulti capaci di riconoscere le differenze e di rispettarle.

Quest’anno il governo ha deciso di contare i femminicidi trimestralmente. Questo significa che in questo momento non conosciamo l’entità del fenomeno in Italia. È un problema la mancanza di dati?

Il problema si sgonfia se nessun femminicidio viene compiuto. Fare la conta è una grande sofferenza per tutti noi, ma io temo molto sull’effetto dell’abitudine a sentir parlare di femminicidi. Ormai è un titolo molto presente nella nostra stampa. Io temo che le continue cronache, peraltro dovute, possano indurre a un atteggiamento di normalizzazione nei confronti della violenza di genere. Come dire: ormai è un fenomeno strutturale. E quasi ci facciamo l’abitudine. Questo può essere un pericolo enorme per sensibilizzare sempre di più l’opinione pubblica. Che invece deve trasformarsi in forza di grandissimo contrasto alla violenza sulle donne.

C’è un problema di narrazione e di linguaggio sui femminicidi?

C’è molto da fare ancora, ma tanto è cambiato negli anni. Per esempio dal 2017, quando il 25 novembre fu presentato al teatro La fenice di Venezia il manifesto di Venezia. Un decalogo voluto dal sindacato Veneto dei giornalisti, dalla CPO della federazione nazionale della stampa, da Giulia giornaliste, per una rappresentazione corretta della violenza nelle parole e nelle immagini. Un vademecum sottoscritto dai direttori di testata e da centinaia e centinaia di giornaliste e giornalisti. Un testo allegato al nostro codice deontologico entrato in vigore lo scorso giugno e utilissimo nella consultazione perché supporta l’elaborazione di una cronaca fedele, che non rinunci alle notizie ma sia adeguata nel rispetto delle vittime. Non sempre ciò avviene. Io credo che la cronaca di questi atti così irreparabili e cruenti vada sempre affiancata da un’opinione, che apre una riflessione sociale e culturale su quanto accaduto. Completare l’informazione con i contenuti di un pensiero critico e costruttivo ci aiuta a superare il ripetersi di tale atrocità.

Quando si diffuse la notizia del ritrovamento di Cinzia Pinna, in tanti lamentarono dell’eccessivo spazio dato al racconto sulla vita dell’assassino. C’è stato un errore da parte dei media? Se si, per quale motivo permane una certa difficoltà dei giornali nel raccontare una storia di sangue?

La tragica morte di Cinzia Pinna è stata raccontata con una preponderanza di dettagli sulla vita e la personalità di Emanuele Ragnedda, il reo confesso. Una sorta di acchiappa clic quello di indugiare sul suo patrimonio, sulla sua redditizia attività, sul suo stile di vita. Ma alcune cronache si sono soffermate anche sulla personalità della vittima e devo dire in maniera eccessiva mettendo in luce le sue fragilità. Ripeto, la cronaca è cronaca e alcuni dettagli sono determinanti per esplicare i fatti. Altri invece del tutto secondari spesso producono proprio l’effetto di rendere due volte vittima, la vittima. Credo che una buona cronaca sia il frutto di un equilibrio tra la notizia, le notizie che non vanno mai nascoste e il rispetto delle persone. La formazione, la deontologia e soprattutto il buon senso di chi fa cronaca fanno la differenza.

Come giornalista hai raccontato tanti casi di violenza di genere: c’è stata qualche storia in particolare che ti ha fatto scattare la molla per occuparti del tema in maniera più approfondita?

La molla è scattata nel 2011, quando a fine dicembre in un comune del catanese fu uccisa Stefania Noce, 24 anni, e con lei suo nonno, Paolo Milano, che aveva cercato di difenderla dal suo fidanzato. Nelle motivazioni della sentenza di condanna, il reato venne configurato in maniera diretta come femminicidio. La prima volta che in una sentenza in Italia veniva usato questo termine. Da allora, l’associazione Giulia Giornaliste è impegnata a raccontare la violenza sulle donne, utilizzando i termini giusti, quelli capaci di rispecchiare la realtà. Fu da allora che la parola femminicidio cominciò ad affacciarsi anche nei nostri giornali per definire correttamente le ragioni per le quali una donna viene uccisa dalla mano di un uomo. Comprendere e conoscere le radici della violenza di genere significa saper utilizzare gli strumenti giusti e più efficaci per riuscire a contrastarla.

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