(Foto credit: Ansa)

Un fondo per le vittime dei reati da alimentare con una parte degli stipendi dei detenuti nelle carceri italiane. È questa la proposta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che ha trovato supporto anche dal sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria (Sappe).

Non tutti, però, ne sono entusiasti e denunciano, al contrario, una “scarsa conoscenza della realtà detentiva”. A dirlo è Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti e Riforme.

“In particolare in Sardegna – spiega Caligaris – dove su 2070 detenuti svolgono attività lavorative remunerate in modo adeguato circa 500-600 persone. Le altre o non svolgono alcuna attività perché troppo anziane o con malattie invalidanti, oppure perché sottoposte a farmaci psicotropi e metadone o ancora perché il lavoro viene assegnato a turno, per carenza di fondi”.

“L’unica eccezione – dice l’esponente di SDR – è rappresentata dalle case di reclusione all’aperto ma anche lì i numeri dei lavoratori sono pochi. Non a caso nelle carceri si parla ancora prevalentemente di mercedi, remunerazioni per attività maschili e femminili quali ‘scopino’, ‘portavitto’, ‘spesino’ per chi si occupa della rammendatura di federe e lenzuola. Lavorare nelle cucine – prosegue Caligaris – è invece l’attività più ambita e meglio remunerata ma non si tratta di stipendi da chef stellati. Senza dimenticare che le mercedi servono a far campare le famiglie fuori dagli istituti”.

“Il lavoro può fare la differenza e può offrire occasioni di riscatto e reinserimento sociale abbattendo la recidiva – aggiunge Caligaris -, ma ritenere che si possa procedere con i prelievi a prescindere dalla tipologia di attività non è proponibile. Basti ricordare che le persone detenute pagano il mantenimento di circa 120-130 euro al mese e chi non lavora dovrà, terminato il periodo detentivo risarcire lo Stato per avergli garantito i servizi durante la reclusione. Per quanto riguarda il cibo si tratta di quasi 4 euro pro die”.

“Il punto nodale del lavoro – ricorda l’esponente di SDR – ancora una volta è legato alle possibilità economico-aziendali nelle differenti aree del Paese. Ovviamente nel centro-nord le possibilità di accedere ad attività esterne al carcere sono maggiori per la presenza di un numero di medie e piccole aziende in grado di accogliere più persone. In un’isola come la Sardegna il ministero dovrebbe seriamente investire nelle colonie penali, rendendole luoghi di lavoro qualificato per donne e uomini privati della libertà. Senza un investimento in questo ambito parlare di prelievo di stipendio per chi sconta una pena appare assurdo”.

“Benissimo invece aumentare il numero delle telefonate – conclude Caligaris – ma anche in questo caso negare una telefonata o una videochiamata alle bambine e bambini minori dei detenuti dell’alta sicurezza, con reato ostativo, non ci sembra rispettare quel principio di equità e considerazione per chi è innocente. A maggior ragione quando si tratta di figlie e figli in condizioni di salute precarie. Anche in questo caso lasciare la decisione a chi dirige l’istituto sembrerebbe la scelta migliore per non ledere un diritto”.

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