(Foto credit: Filming Italy Sardegna)

Matteo Garrone non è uno che ama stare nei salotti televisivi a promuovere i suoi film, nonostante fin dal suo esordio sul grande schermo con “Terra di mezzo” (1996) ci ha abituato a tutta una serie di gioiellini cinematografici che l’hanno portato ad essere uno degli autori più apprezzati da chi la macchina da presa la conosce bene.

Nel 2008 arriva il grande successo con “Gomorra”, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Roberto Saviano, che fa incetta di premi: vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, cinque European Film Awards, sette David di Donatello e una nomina ai Golden Globe per il miglior film straniero.

Ma tutto questo non sembra aver intaccato il suo voler stare coi piedi per terra, come si mostra alla tavola rotonda con la stampa durante la terza giornata, sabato 24 giugno, della sesta edizione del Filming Italy Sardegna organizzato al Forte Village di Santa Margherita di Pula.

La prima domanda, data l’alta qualità delle sue pellicole, è proprio sulla “bontà” del cinema italiano oggi. “Non è facile fare un film – dice ai presenti -. Anche in buona fede a volte si fanno errori. È capitato anche a me. Per esempio per Dogman – film del 2018 vincitore di 19 premi cinematografici – avevo scelto un altro protagonista, un attore molto bravo che però non andava bene per quel ruolo. Avevo anche trovato una location, un parcheggio di Casal Palocco, che poi ho capito essere completamente sbagliata. E all’epoca avevo già fatto dieci film, che non sono pochi. Ecco perché penso che per un regista l’errore sia sempre in agguato. Per fortuna ogni tanto te ne accorgi in tempo e riesci a cambiare rotta – continua il regista -, ma quanti grandi cineasti hanno fatto tanti capolavori e poi all’improvviso hanno perso l’ispirazione oppure non hanno più trovato la forza espressiva degli inizi? Può succedere. E in ogni caso – aggiunge Garrone – credo che qualsiasi regista che sia riuscito a fare anche solo un bel film andrebbe giustificato per tutti gli errori che vengono dopo”.

Il punto, secondo il regista, è un altro: “Si parla tanto di voler far tornare gli spettatori al cinema – dice Garrone – ma per farlo secondo me servono delle belle sale in cui godersi il film e pagare il biglietto in base alla sala che si sceglie: se vado in una piccola sala – spiega il regista – non posso pagare lo stesso tanto di una sala grande e più comoda. Altrimenti poi succede che si preferisce stare a casa e vedersi il film sul divano da una tv con un bello schermo”.

Tempi duri, per il cinema? Neanche troppo. “Come sapete sono un autodidatta – racconta Garrone -, quindi non è che ho una grande preparazione teorica. Il mio lavoro è dato più dall’esperienza che ho vissuto sul campo. Quando mi capita di incontrare dei ragazzi, infatti, cerco innanzitutto di capire a cosa sono interessati e quali sono i loro obiettivi. A volte mi capita di andare al Centro Sperimentale e, come prima cosa, cerco di capire se la platea che avrò di fronte studia scenografa, sceneggiatura, montaggio. Provo insomma a mettermi al servizio degli studenti. Non penso di essere quello che ti dà il consiglio che cambia la vita, ma tento di instaurare un dialogo. Banalmente dico ai giovani di non omologarsi, di trovare un proprio linguaggio, una propria strada. Oggi da un punto di vista tecnico si possono fare dei film con un budget più ridotto. Io ho iniziato che c’era ancora la pellicola – continua il regista – e giravo i miei corti con gli scarti di Nirvana di Gabriele Salvatores. Giravo con la pellicola, avevo la macchina da presa e per il montaggio c’era l’Avid che costava 1 milione a settimana. Oggi con Final Cut monti tutto molto più facilmente, e poi a dirla tutta si trovano telecamere non troppo costose che fanno dei lavori eccezionali. Se hai un’idea, la realizzi con poco, quindi i giovani non hanno alibi”.

Ma stando ancora sui giovani, cosa ne pensa della critica fatta da Nanni Moretti nel suo ultimo capolavoro “Il Sol dell’Avvenire” (2023) rispetto a un uso spropositato e superficiale della violenza nei film? “Penso che la violenza non debba essere mai un fine ma un mezzo per raccontare una storia – risponde diretto Garrone -. Se è necessario, si può raccontare la violenza per far capire ancora di più i conflitti che vive un personaggio. A volte si abusa della violenza per compiacere un certo tipo di pubblico. Quando ho fatto Dogman – spiega il regista -, sapevo che era un film che trattava una tematica legata alla violenza, che veniva da un fatto di cronaca piuttosto famoso. Ci ho lavorato per 14 anni a quella storia senza mai riuscire a trovare fino in fondo una chiave per sentire mio quel film, perché c’era qualcosa che mi impediva di partecipare emotivamente fino in fondo. Siccome quando faccio un film devo amare i miei personaggi, non riuscivo a sentire vicino un personaggio che ne tortura per giorni un altro. Poi mi è venuta l’idea di raccontare un uomo che si ritrova dentro a un meccanismo di violenza che non gli appartiene: un erbivoro che finisce in un mondo di carnivori, che prima cerca una vendetta quasi infantile, perché desidera che l’altro gli chieda scusa, e poi, non riuscendo a uscire dal meccanismo di violenza, si adegua”.

Prima di arrivare al cinema, Garrone è stato anche un pittore. Un’analogia che una giornalista riporta al mito David Lynch, che per realizzare i suoi film parte da un’immagine o una sensazione visiva. “Oddio, non vorrei che mi paragonaste a lui – dice scherzosamente il regista – Ma sì, sicuramente oltre a un legame forte con un personaggio, per me è fondamentale il rapporto con una storia che mi suggerisce delle immagini. In altre parole, una realtà che posso interpretare e che penso di poter raccontare in una maniera che mi spiazzi, mi sorprenda. A quel punto – spiega Garrone – cerco di trovare un’idea, anche figurativa, che mi permetta di entrare in un mondo e di avere la sensazione di poter narrare quel mondo con uno sguardo personale e inedito. A volte ci riesco e a volte no, però per me è fondamentale l’immagine. Quando ho fatto Il racconto dei racconti, ad esempio, ho compiuto un viaggio attraverso un’iconografia. Uno dei miei punti di riferimento erano I capricci di Goya, che per me avevano qualcosa di quel grottesco che sentivo in Basile. Per ogni film, piano piano costruisco un riferimento anche figurativo e visivo su cui poi poter lavorare”.

C’è poi un’altra caratteristica che ormai i produttori riconoscono come propria di Garrone: il tesoretto. “Quando devo girare un film, mi lascio sempre una quota del budget da parte – spiega – perché non si sa mai che debba girare da capo alcune scene”. È successo ad esempio con Gomorra. “Ricordo che rimasi colpito dalla forza della realtà di Gomorra, che era una meta-realtà, cioè sconfinava quasi nella fantascienza, nella fiaba. L’inizio che conoscete, però, è nato dopo aver finito la sceneggiatura – svela il regista -. Mi spiego: nella sceneggiatura la scena iniziale doveva mostrare dei compagni di clan che improvvisamente cominciano a spararsi fra loro. Volevo far capire allo spettatore che era in atto una scissione, ma poi stando lì sul posto mentre preparavo il film, mi sono accorto che i criminali, un po’ come accade con i calciatori di oggi che sono dei modelli, ci tenevano ad essere belli. Un boss, prima di spararsi con un altro boss, magari andava a farsi la manicure o la lampada! Così ho colto questa cosa e ho deciso di ambientare la prima scena dentro a un solarium”.

Nessuna risposta, invece, sul suo ultimo film “Io Capitano”, in uscita nelle sale il prossimo settembre, che ha come tema centrale i migranti. “Come sapete, non posso anticipare nulla – dice Garrone – ma posso dire, riprendendo una cosa che disse una volta Fellini, che non ci sono film belli o brutti, ma vivi o morti. Ecco, io cerco di fare del mio meglio per raccontare delle storie che siano vive”.

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