Laura Dern ha iniziato a respirare aria di cinema fin da bambina. Nata da una coppia d’attori, Bruce Dern e Diane Ladd, nel tempio del cinema internazionale, Los Angeles, ha fatto i primi passi nel mondo della fiction all’età di sei anni.
Tra gli altri registi, ad accorgersi del suo talento fu nientemeno che David Lynch, che la scelse per “Velluto blu” (1987), film che inizialmente lasciò tutti perplessi ma che col tempo venne riconosciuto come un vero e proprio cult. “È il mio eroe”, dice l’attrice americana durante l’incontro con la stampa tenutosi venerdì 23 giugno in occasione della sesta edizione del Filming Italy Sardegna al Forte Village di Santa Margherita di Pula.
“L’ho conosciuto quando avevo solo 17 anni – dice Dern – e da quel momento è sempre stato il regista della mia vita. Lavorare con lui in momenti diversi della mia carriera è stato un dono del cielo. Quando abbiamo fatto Velluto blu, il film ci sembrava folle, inquietante ma bellissimo. Ogni film che fai con David Lynch ti dà questa impressione, e anche Cuore selvaggio, pur avendo una trama più lineare, alla prima visione sembra assurdo, originale ed estremo. Vincere la Palma d’Oro è stato fantastico, ma diversi giornalisti sembravano poco convinti. Quando David ed io abbiamo fatto Velluto blu – continua l’attrice statunitense – molti giornalisti sono usciti durante la proiezione. Dieci anni dopo, gli stessi dicevano che Velluto blu era il loro film preferito. Quello che intendo dire è che David ha bisogno di tempo per essere ‘capito’, ma è per questo che lo amiamo”.
Un visionario del quale Dern divenne “musa ispiratrice” e sua supporter numero uno. “Speravo che Inland Empire avesse lo stesso destino degli altri film di Lynch – racconta l’attrice -. Per David era un esperimento, perché in un certo modo rappresentava la sua ribellione nei confronti di quei giovani artisti che, per girare il loro primo film, aspettavano che uno studio desse loro 10 milioni di dollari. Aveva ragione, perché adesso è possibile girare un film con un cellulare. Quando parlammo per la prima volta di questo film, mi disse: ‘Voglio fare un film di cui ancora non è chiara la trama, utilizzerò la prima macchina da presa che trovo, anche se non è di grande qualità, magari una piccola Sony degli anni ‘80, e lo farò perché, se una persona che sta a casa dei nonni in vacanza vuole fare un film, non aspetta di trovare uno studio o di andare a Los Angeles. Non ha senso rimandare un film perché non si trovano attori eccezionali e tanti soldi. Bisogna scrivere una sceneggiatura e mettersi al lavoro. In ogni modo’. Inland Empire – prosegue l’attrice – è stato per lui anche un modo per parlare di trascendenza e per meditare, ed è bellissimo che ci siano dei registi e degli attori che scoprono il film oggi”.
Il lavoro con Lynch permise a Dern di crescere professionalmente fino a diventare una delle attrici più apprezzate di Hollwood. Suo il Premio Oscar come migliore attrice non protagonista per il film “Storia di un matrimonio” (2019) diretto da Noah Baumbach. Un riconoscimento che arrivò dopo quattro Golden Globe per le interpretazioni in “Afterburn” (1992), “Recount” (2008), “Enlightened” (2011-2013) e “Big Little Lies” (2017-2019). Grazie a quest’ultima, poi, ha ottenuto anche il suo primo Emmy Award a fronte di sette candidature ricevute.
Ma nel cuore dei suoi affezionatissimi spettatori, al primo posto resta “Jurassic Park” (1993), film diretto dal mito Steven Spielberg in cui l’attrice statunitense interpreta la paleobotanica Ellie Sattler. Una pellicola che all’epoca poneva già all’attenzione del pubblico il rapporto tra uomo e natura. “È incredibile che sia trascorso così tanto tempo – dice Dern -. A 23 anni ho avuto l’opportunità di recitare in un film che sembrava coraggioso e che, a sentire la descrizione di Spielberg mentre lo stava preparando, sembrava folle. Mi disse: ‘Cercheremo di riportare in vita i dinosauri grazie a una tecnologia che nessuno ha mai utilizzato. Si chiama CGI’. Ricordo che c’era un computer gigantesco che ci portammo alle Hawaii, quindi per me era come lavorare con David Lynch, perché stavamo facendo un film profondamente indipendente. La parola franchise – continua – non esisteva e all’epoca non si facevano così tanti sequel. Steven aveva semplicemente avuto l’idea di portare al cinema il romanzo di Michael Crichton per affrontare temi cruciali come la manipolazione genetica e la salvaguardia dell’ambiente. È stata un’esperienza straordinaria, che mi ha cambiato la vita, con dei colleghi favolosi”.
La voglia di sperimentare di Dern non si è mai fermata. E anche oggi, ha un sogno nel cassetto. “Quando Paolo Sorrentino ha diretto È stata la mano di Dio – dice l’attrice -, ci ha regalato la possibilità di osservare il dolore e il modo in cui il dolore può trasformare il percorso di vita di una persona, facendole incontrare l’arte. Il suo film mi ha davvero commosso. È un film politico, perché ti dice che quando tutti ti invitano a nascondere il dolore e a non parlarne o ancora a prendere un farmaco per farlo passare, non si rendono conto che l’esperienza del dolore fa parte del processo di guarigione e di crescita. Il mio sogno è di essere diretta da Paolo Sorrentino. Più in generale – aggiunge – mi auguro di continuare a essere scelta per film capaci di sollevare interrogativi complessi o di analizzare in maniera interessante il comportamento umano”.
Una sfida che non sempre è stata facile per lei, nata donna in un mondo – quello cinematografico degli anni settanta – in mano a registi e produttori uomini, ma che oggi sembra vedere un “nuovo inizio” alla luce anche del movimento #Metoo, nato proprio negli Stati Uniti, per voce di attrici e registe che hanno voluto denunciare abusi e violenze da parte del noto produttore Harvey Weinstein, ricevendo un successo insperato a livello internazionale.
“Molte cose mi sembrano cambiate – dice Dern -, e in tanti di campi lavorativi, ma secondo me siamo destinati a tornare indietro. L’idea che il cambiamento, tanto nel campo della politica quanto in quello artistico, sia destinato a durare per sempre mi sembra poco verosimile. Nel cinema, nel giornalismo, nel campo dell’insegnamento e dell’editoria, uno degli obiettivi era l’uguaglianza di salario, e indubbiamente sono stati fatti dei passi avanti, ma c’è ancora tanta strada da percorrere. Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, si presta grande attenzione alla diversità”.
Condizione che quand’era bambina non era nemmeno contemplata. “Sono stata cresciuta da un attore e da un’attrice – racconta Dern – e per me erano tutti e due coraggiosi e forti, ma quando i miei genitori hanno divorziato, e io ero ancora una bambina, entrambi sono stati candidati all’Oscar ed entrambi erano attori incredibili, ma mio padre viveva in una casa grande mentre mia madre viveva in un piccolo appartamento, mio padre aveva una piscina e noi no, mia madre doveva sempre lavorare per pagare l’affitto e mi lasciava a casa insieme a mia nonna. Anche mio padre lavorava, ma era diverso, e io mi rendevo benissimo conto – conclude l’attrice – che c’era una differenza abissale fra l’essere un’attrice e l’essere un attore”.
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