Quando sale sul palco, son tanti i volti giovani in sala che l’attendono. Uno dei suoi meriti più grandi, infatti, è stato quello di dimostrare alle nuove generazioni che il giornalismo italiano non è morto, come spesso si son sentiti raccontare, ma vive una nuova occasione.
Cecilia Sala, penna romana di 28 anni, oggi conta 345mila follower su Instagram ed è stata definita da più parti “una promessa del giornalismo italiano”.
Occhi grandi e voce decisa, è stata tra gli inviati di guerra in Ucraina da dove ha riportato giorno per giorno i fatti, i volti e le storie di donne, uomini e bambini che il 24 febbraio 2022 si sono svegliati in un incubo duro a morire. Ma prima di arrivare fin qui ha fatto tanta gavetta: dagli Zero Studios di Michele Santoro alle collaborazioni con Vanity Fair, L’Espresso e la Rai. Dal novembre 2019 scrive per il Foglio, dove si occupa tutt’ora di Esteri.
Il vero successo mediatico arriva però con il podcast “Stories”, realizzato per Chora Media, dove ogni giorno racconta i più importanti fatti internazionali.
Nella serata di sabato 6 maggio è stata ospite del Festival Liberevento, nel centro culturale di Iglesias, per presentare il libro “Polvere. Il caso Marta Russo”, scritto insieme a Chiara Lalli, nato come podcast ma pensato tanti anni fa, quando era ancora una giovane studentessa liceale di Roma e sognava di diventare una giornalista.
Partiamo dal libro sul caso Marta Russo, che nasce come podcast. Com’è nato questo progetto? Perché hai scelto proprio questa storia?
In realtà questo progetto è nato molto prima di quando, con Chiara Lalli, ci siamo effettivamente messe a lavorare su questo caso e fare una contro inchiesta, prima con il podcast per Huffington Post, poi per il libro. È nato quando io ero al liceo, nel momento in cui iniziavo a pensare di voler fare la giornalista da grande. Questa storia l’ho incontrata per caso, non per scelta. Nel mio liceo viene a insegnare Giovanni Scattone, che per lo Stato italiano è l’assassino di Marta Russo. Io non conoscevo questo caso, sono del ’95 mentre il caso è del ’97, quindi per me Giovanni Scattone era un ottimo professore di Filosofia, molto amato tra i suoi studenti. Non sapevo nemmeno che Marta Russo avesse frequentato il mio stesso liceo, non lo sapeva neanche Giovanni Scattone quando aveva scontato la sua pena ed era stato reinserito nella società venendo assegnato come supplente a quel liceo.
E poi cosa succede?
Un gruppo di Lotta studentesca, la giovanile di Forza Nuova, di estrema destra romana, scopre che Giovanni Scattone è tornato a insegnare e si presenta tutte le mattine davanti al mio liceo per impedirgli fisicamente di entrare e fare il suo lavoro. In quel momento scopro questa storia, ho uno dei protagonisti davanti a me, ero una dei rappresentanti di istituto e dovevo anche gestire il fatto che tra gli esterni e gli alunni molto affezionati a questo professore potesse scoppiare una rissa. Così inizio a studiare il caso e trovo che qualcosa non torni, ma non avevo certamente le competenze per poter portare avanti uno studio simile. Molti anni dopo con Chiara Lalli è nato questo progetto. Già al liceo mi ero promessa che se fossi davvero riuscita a fare la giornalista, lo avrei affrontato da adulta.
Dopo “Polvere” è arrivato il podcast “Stories”, che ti ha fatto conoscere al grande pubblico. E dire che la sezione Esteri in Italia sembrava essere sparita.
Sì diciamo che gli ultimi eventi hanno cambiato un po’ le cose. Gli Esteri erano spesso relegati dopo quindici pagine di cronaca politica interna. Io credo che dal ritorno dei talebani a Kabul, in Afghanistan, nell’agosto 2021 e poi, in modo ancora più vicino a noi, dal 24 febbraio 2022 con l’invasione dell’Ucraina, abbiamo tutti un po’ riscoperto che il mondo è molto complesso e le cose pericolose continuano ad accadere e ci riguardano, hanno delle conseguenze reali e concrete sulle nostre vite.
Sei molto attiva anche sui social, ma non da sempre. Quando è stato il momento in cui hai deciso di iniziare le dirette su Instagram?
Ho fatto molte cose su Instagram quando avevo un altro numero di seguaci. Per un periodo ho fatto una specie di rubrica informale in cui parlavo di un argomento di Esteri con un collega esperto: ad esempio con Giulia Pompili abbiamo parlato di Asia, con Simone Pieranni della Cina. Ho fatto varie dirette su argomenti come la protesta di quella settimana, un’elezione, un fatto di guerra. Non erano breaking news, erano temi di quel momento approfonditi con delle dirette che erano anche molto lunghe. C’è questa idea, anche verissima, che sui social funzioni la pillola di massimo quaranta secondi, quelle erano cose di quarantacinque minuti. Però è anche un modo per trovarti uno spazio. La generazione di cui faccio parte non ha una gavetta tradizionale per arrivare ad avere una voce. Una volta ti facevano un contratto, per cui ti pagavano per imparare e avevi delle garanzie e poi dopo diventavi giornalista. Ora non funziona più così.
Tornando all’Ucraina, sei stata tra gli inviati italiani che hanno potuto raccontare dal vivo quel che succede a un passo da noi. Cosa ci dobbiamo aspettare nel prossimo futuro?
È difficile dirlo con certezza, io penso che ci sarà una contro offensiva ucraina e credo che gli ucraini sappiano di giocarsi non solo la liberazione di parte del loro territorio – che vuol dire innanzitutto di cittadini e di persone -, ma credo che gli ucraini pensino anche che ci sia in gioco il continuare del sostegno dei loro alleati oppure, al contrario, che gli americani e gli europei diranno ‘abbiamo finito con gli aiuti’ a seconda di come va.
Cosa ne pensi del fatto che tanti giornalisti che hanno raccontato quel che accadeva lì poi son stati etichettati come dei “portavoce di Zelensky”?
Con i nuovi strumenti e le nuove tecnologie è più facile di quanto lo fosse nella guerra in Vietnam bypassare la propaganda, reperire le informazioni e metterle insieme anche online, conoscere il lavoro degli altri giornalisti e degli analisti indipendenti di intelligence, che guardano tutte le immagini che arrivano dal campo di battaglia e ti sanno dire esattamente quali sono le perdite da una parte e dall’altra. Quindi è ovvio che in guerra ci sono delle regole, è ovvio che non puoi fotografare le concentrazioni di truppe ucraine perché le metteresti in pericolo, e qualsiasi governo non ti permetterebbe di farlo. Rispettare delle regole ovvie che in guerra ci sono sempre state, sapendo che oggi comunque abbiamo molte più informazioni rispetto alle guerre del passato, è molto diverso dall’essere i portavoce di un presidente.
Ti occupi tanto anche di Medio Oriente, dove si torna a protestare anche in Israele. Un fatto eccezionale dato che non si vedevano manifestazioni di questo tipo da anni. È l’inizio di una inversione di marcia verso forme di governo più democratiche?
Israele è una democrazia che sta tentando di approvare una riforma della giustizia che sembra alla stragrande maggioranza degli israeliani una riforma che metterebbe in pericolo l’assetto democratico. L’estrema destra in Israele ha una grandissima forza in Parlamento grazie a dei trucchi elettorali assolutamente legittimi ma che restano trucchi, dato che il peso che ha in Parlamento è molto maggiore rispetto alla percentuale della popolazione che realmente rappresenta. Quindi c’è una maggioranza di israeliani che ha paura che pochi estremisti prendano delle decisioni importanti per tutti loro e che protesta come non si era mai visto nella storia del Paese.
A breve si voterà nuovamente in Usa. Come la vedi?
Manca ancora un po’ quindi è molto difficile fare delle previsioni. Da qui al 2024 può succedere qualsiasi cosa, le campagne elettorali americane sono sempre molto movimentate e sorprendenti quindi possono veramente esserci degli episodi che stravolgono le impressioni che abbiamo in questo momento. Sappiamo due cose: che Donald Trump doveva essere finito dopo il 6 gennaio 2021, quando c’è stato l’assalto al Congresso, e invece è ancora forte sia nel partito sia tra gli elettori repubblicani che nei sondaggi dicono che vorrebbero lui come candidato. Dall’altra parte c’è un presidente, Biden, che è autorevolissimo – spesso se c’è un presidente in carica gli altri nel partito non gli fanno neanche concorrenza -, ma se rivincesse sarebbe un presidente alla fine del secondo mandato di 86 anni. Qualcosa che è abbastanza clamoroso e anche il sintomo di una gerontocrazia in un Paese come gli Stati Uniti che non sono particolarmente gerontocratici. Di nuovo una sfida Trump-Biden sarebbe forse un po’ avvilente, vorrebbe dire che degli sconvolgimenti enormi, come l’assalto al Congresso appunto, non sono degli insegnamenti che abbiamo imparato ma che potrebbero ripetersi.
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