Nella legge di bilancio che verrà discussa in Parlamento, non sono previsti fondi alla cultura. Davanti alle emergenze nazionali, appare il primo settore a dover fare i conti con i sacrifici, con minori finanziamenti e minori agevolazioni.
I tagli più pesanti riguardano l’indennità di discontinuità, che riconosceva per la prima volta la precarietà del lavoro nel mondo dello spettacolo. Una misura che aiuterebbe soprattutto le maestranze, spesso costrette a cambiar lavoro (o a rimanere in attesa di trovarne uno) e a far mancare al comparto figure altamente professionalizzate.
La politica, dunque, sottovaluta il valore della cultura? Ne abbiamo parlato con Alessandro Spedicati, cantante e artista, che per anni è stato il frontman dei Sikitikis ed ha vissuto sulla propria pelle pregi e difetti del mondo culturale.
Nella legge di bilancio del nuovo governo sembrerebbe sparita la cultura. Perché viene così sottovalutata?
È un approccio che abbiamo visto sempre. Peraltro va in contraddizione con un aspetto storico della destra, cioè l’aiuto all’imprenditoria. Magari proprio per mancanza di cultura non sanno che l’industria culturale è tra le più remunerative. Gli studi più autorevoli dimostrano che ogni euro investito in cultura restituisce sei euro al territorio. Non sono moltissime le industrie che sono in grado di generare un indotto così importante. Forse ci sono anche altri motivi da parte della destra per non investirci.
Già nel passato si disse che “con la cultura non si mangia”. E nel corso degli anni, con tanti governi diversi, sulla cultura non c’è stato un occhio di riguardo. Perché?
Se fossi complottista dovrei pensare che c’è una volontà politica precisa per non puntare sulla cultura. La verità è che forse la coperta è corta e si pensa ad altri ambiti. Investire sulla cultura significa avere una grande lungimiranza e pensare a lungo tempo. Oggi la politica non se lo può permettere, il consenso si basa su soluzioni a breve termine.
Tra le pochissime proposte nella legge di bilancio c’è la flat tax per redditi fino a 85 mila euro. Quanto può aiutare?
Secondo me la cultura andrebbe completamente detassata. In altri paesi, chi produce cultura non paga le tasse. Perché si parte dal presupposto che il contributo culturale è già un bene per la collettività. Se facciamo un rapporto tra le ore di lavoro spese per produrre una opera artistica e ciò che questa potrà generare nel tempo, c’è una grossa discrepanza. Vincent Van Gogh dai suoi quadri ha guadagnato zero. Ma il loro valore è stato immenso. Chi lavora nella cultura non diventa ricco. I Maneskin, per dire, di quello che stanno facendo guadagnano appena il 10%. E non ci sono solo chi ci mette la faccia. Dietro ci sono dei lavoratori, che talvolta sono sfruttati, che ci mettono la fatica, le braccia e tutto per creare cultura. Non è un settore a favore di ricchi e privilegiati. Nessuno diventa ricco facendo il fotografo o il pittore. Se ci sono, sono animali rari. Intorno ci sono tantissime persone che cercano di sfangarla a fine mese.
A Cagliari ci sono state tante polemiche per i 500 mila euro spesi per Blanco a capodanno. Proviamo a capire, nel concreto, a cosa servono quei soldi?
Intanto è pubblicità. E la pubblicità ha un grande valore. Un territorio si nutre di comunicazione. Questa comunicazione colloca Cagliari come brand all’interno di un gruppo ampio di persone che sceglie la città per fare un viaggio e per passare l’ultimo dell’anno in Sardegna. Se ci sono fan di Blanco di Roma, Milano, Torino, Napoli, questi vengono in Sardegna a vederselo. Con ovvie ripercussioni sul tessuto economico della città.
Poi ci sono delle conseguenze meno visibili e più pesanti. Soldi per fare un capodanno ce ne vogliono, ci vogliono moltissime risorse. Devi pagare tutti quelli che ci lavorano. Per Blanco a Cagliari immagino saranno impegnate almeno un centinaio di persone, che ancor più a capodanno devono essere giustamente pagate di più perché è un festivo. Non è solo Blanco. Bisogna smettere di pensare che quelli siano soldi che un cantante si mette in tasca. È una macchina che va pagata.
In Sardegna invece come vive la cultura? Di recente ci sono state polemiche per uno spot
Il vero fermento culturale si fa lasciando che i giovani, soprattutto, si approprino dei linguaggi e li restituiscano con la propria visione. I canti a tenores sono belli, sono interessanti, ma non siamo solo questo. Non si può vendere la Sardegna con la retorica e il folklore. Tutt’altro. Soprattutto nei centri più vasti ci vuole un supporto verso l’innovazione. La cultura non è una cosa che mettiamo dentro una teca e non tocchiamo più. La cultura è una cosa che si contamina, che ha bisogno di crearsi anticorpi. Cosa vogliamo che diventi la Sardegna nel futuro, per i turisti? Non ci sono Giganti di Monte Prama subacquei che escono dal mare coi mamuthones. Quando il turista arriva qui, non trova nulla di quello che vede. La Sardegna non è un set cinematografico nel quale in giro ci sono mamuthones che ti indicano dove mangiare il maialetto. Va bene raccontare la nostra cultura, ma senza trasformarla in un teatrino. La cultura trasformata in folklore diventa ridicola. C’è una comunicazione sbagliata, finta. Finiremo per sentirci finti anche noi.
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