Diciotto femminicidi in cinque anni in Sardegna, e oltre seicento in Italia, dovrebbero bastare a risvegliare le coscienze dei più. A fare attenzione non soltanto al tragico fatto in sé, ma anche a quel che avviene prima che sia troppo tardi. A partire dalle parole.
Eppure le battaglie sul linguaggio di genere sembrano non aver conquistato proprio tutti, anzi, continuano a dividere.
È soltanto di qualche settimana fa la scelta della neoeletta Presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, di farsi chiamare “il Presidente”. Una provocazione o una scelta legittima? Fatto sta che dal giorno dell’insediamento della nuova premier i canali istituzionali di Palazzo Chigi seguono necessariamente le decisioni prese a monte e, in qualche caso, le comunicazioni scritte sembrano andare a sbattere contro le più elementari norme grammaticali della lingua italiana.
Ma non solo. Ad alimentare una figura del tutto anonima, quindi distante dal lettore o spettatore, della donna vittima di violenza sono gli stessi media, che ancora oggi insistono su titoli sensazionalistici e acchiappa like, tra ex “innamorati” e mariti “delusi” dalla relazione di coppia. In tanti casi, poi, si fa ricorso a un fantomatico “mostro” – talvolta “orco” -, che in realtà, a ben vedere, ha volto e sembianze del tutto umani.
Un modus operandi duro a morire, che non ferma però chi da anni lotta per un linguaggio che si renda conto della presenza femminile nella nostra società. Come le professioniste di Giulia Giornaliste, nata nel 2011 come rete nazionale “perché allora ci si rendeva conto, come oggi, che le giornaliste all’interno delle redazioni rappresentavano circa il 50% della forza lavoro ma che non erano altrettanto rappresentate negli organi direttivi”. Lo racconta Susi Ronchi, ex presidente del Corecom Sardegna e coordinatrice regionale dell’associazione che è sbarcata nell’Isola nel maggio 2017.
Il primo step quindi è stato lavorare “per garantire una parità di genere nella progressione delle carriere rispetto ai colleghi uomini”, continua Ronchi. Poi si è passati a un altro fronte: “Alle giornaliste dell’associazione non piaceva come le donne venivano rappresentate nei media, così hanno deciso di fare uno studio interno a riguardo, partendo dal linguaggio di genere e il linguaggio della violenza sulle donne, che fosse rispettoso dell’identità e della dignità di genere”. Il risultato è stato indicativo di una società da sempre abituata a oggettivare la donna e poco propensa a lasciarle una voce in capitolo, dando invece ampio spazio al carnefice.
La rete nazionale Giulia Giornaliste è nata dieci anni fa. È cambiato qualcosa nel frattempo rispetto al linguaggio di genere nei media?
No non è cambiato molto. La violenza viene rappresentata con un linguaggio che ancora non è coerente con la realtà dei fatti. Troppo spesso sentiamo e leggiamo che il femminicidio così come ogni forma di violenza sulle donne è determinata da passione, troppo amore, gelosia, o perché lei lo ha lasciato, o perché lei lo ha chiamato con il nome di un altro, o perché lui era depresso. La rappresentazione mediatica della violenza deve in primo luogo rappresentare la vittima perché se no c’è il rischio che la vittima diventi il colpevole e viceversa. Il linguaggio mediatico invece cerca sempre di trovare ogni forma di giustificazione al colpevole e di contro, quando si sviluppa questo tipo di direttrice, c’è l’altra parte della medaglia che crea la seconda vittimizzazione della vittima. Lo vediamo quando si scava nel passato delle donne uccise e si mette in evidenza le personalità, i comportamenti, la vita vissuta, la loro intimità. Bisogna cercare di trovare le parole giuste per raccontare questi fatti, perché ricordiamoci che, come disse il grande linguista Francesco Sabatini, “ogni parola corrisponde a un fatto”. Nel momento in cui scegliamo una parola, stiamo scegliendo di compiere un’azione.
Quanta responsabilità hanno i media rispetto al fenomeno della violenza sulle donne?
C’è una grande responsabilità da parte dei media. Tra tutte le direttive europee che si sono mosse in questo senso, posso citare la Convezione di Istanbul, approvata dal Consiglio d’Europa nel 2011, poi anche in Italia nel 2013, che ricorda che i media hanno una grandissima responsabilità nella prevenzione della violenza, non soltanto nella rappresentazione corretta. L’informazione esercita una funzione altamente educativa, perché contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica. I media sono un formidabile veicolo di messaggi, di idee, di concetti, di pensieri. Sia attraverso le parole, ma anche le immagini.
Poi c’è stato bisogno anche di un altro documento ufficiale, il Manifesto di Venezia, presentato nel 2017.
Sì pensiamo che l’articolo 5 bis introdotto al Testo unico dei doveri del giornalista è entrato in vigore appena il primo gennaio 2021. È un documento che riguarda il rispetto delle differenze di genere e dà brevi indicazioni utilissime, laddove non arrivasse la sensibilità personale e la professionalità di ciascuno di noi, per stabilire cosa è lecito raccontare e mostrare e cosa assolutamente non lo è. Facendo un passo indietro, il 25 novembre del 2017 fu una giornata storica nella quale si è presentato il Manifesto di Venezia. È stato redatto dal Ministero delle Pari Opportunità, dalla Federazione nazionale della stampa, dall’Usigrai, e da Giulia Giornaliste. È un decalogo, un piccolo supporto che puoi tenere anche nella tua home page che ti dà un aiuto concreto mentre elabori un articolo sulla violenza di genere. È stato accolto da tutte le redazioni d’Italia, da tanti colleghi e tante colleghe. Il punto fondamentale del testo è quello che invita a partire dalla storia della vittima, a raccontarla, in modo che si entri anche emotivamente su quel che è successo. Tanto è cambiato da allora, ma non abbastanza. Perché alcuni giornali continuano a raccontare la violenza in maniera voyeuristica, dando in pasto la vittima ai lettori più pruriginosi, per toccare la pancia dei lettori e non la testa. Ma fare cronaca significa anche fare selezione dei dettagli della vita privata di una persona, ed evitare quelli che niente aggiungono alla narrazione della storia.
Come si muove Giulia Giornaliste per cambiare qualcosa nel concreto?
Intanto nella passata legislatura abbiamo incontrato, insieme alla Commissione Pari Opportunità, FNSI e Usigrai, la deputata Laura Boldrini, a capo di un gruppo di lavoro contro il linguaggio dell’odio, Elena Bonetti, ex ministra delle Pari Opportunità, e la senatrice Valeria Valente, che ha presieduto la Commissione di inchiesta sul femminicidio, per chiedere l’istituzione di un Osservatorio nazionale per vigilare sui media e sulle modalità con le quali rappresentano la violenza di genere e domestica sulle donne. Tutti si son detti d’accordo. Ora siamo di fronte a una nuova legislatura ma quel percorso avviato qualche mese fa contiamo di concluderlo perché è fondamentale.
A proposito di nuova legislatura, come si fa a invertire la rotta rispetto al linguaggio di genere se poi la nuova Presidente del Consiglio chiede che la sua carica venga declinata al maschile?
Su questo l’Accademia della Crusca si è espressa in maniera molto chiara: il femminile utilizziamolo anche per quelle cariche istituzionali che storicamente sono state di appannaggio maschile. Oggi non ha più senso perché le donne esercitano ogni forma di professione, quindi il linguaggio deve essere lo specchio della realtà. Non si può in questo caso parlare di linguaggio di genere perché sembra che vogliamo ghettizzare ancora una volta le donne. Tutto questo non è un percorso che si può attribuire al movimento femminista o a una parte della società, ma è il riconoscimento dell’uso corretto della lingua italiana che non può essere un fatto ascrivibile alla politica, a seconda delle convinzioni di un politico o una politica. Se Giorgia Meloni vuole essere chiamata al maschile, questo lo può fare la sua istituzione, quindi Palazzo Chigi invierà i comunicati con questa declinazione. Ma i giornalisti e le giornaliste con posizioni differenti sono liberi di utilizzare quella al femminile, rispettando appunto la nostra grammatica.
Ultima domanda. Le direzioni dei quotidiani nazionali e locali, anche in Sardegna, sono ancora in maggioranza affidate a giornalisti uomini. Cosa devono fare le colleghe donne per raggiungere la stessa posizione?
Bisogna lavorare sui media, che contribuiscono a modificare la cultura di un Paese. Noi ci troviamo di fronte a un terreno ancora permeabile agli stereotipi e ai pregiudizi di genere. Lo vediamo anche nella presenza femminile nell’informazione: il 24% sono presenti come intervistate, esperte, opinion leader e così via. Questo vuol dire che solo un quarto degli spazi dell’informazione in Italia è riservato alle donne, a far parlare le donne, a sentire il loro punto di vista. Siamo molto indietro anche su questo. Basti pensare alla Rai, dove su tre direttori ai principali TG, soltanto una è donna, Monica Maggioni. E così succede in Sardegna, che rispecchia la situazione nazionale. La soluzione è nel linguaggio, attraverso il quale bisogna riconoscere alle donne le loro professionalità. Solo così possiamo riconoscerne le competenze e il valore nella società, perché i fenomeni sociali vengono sdoganati attraverso il linguaggio.
Leggi le altre notizie su www.cagliaripad.it