Chi fa la spia non è figlio di Maria, si diceva da ragazzi. Ma non per il Tar Sardegna che ha ammesso la legittimità della punizione del dipendente pubblico che scrivendo su whatsapp al collega parla male dei capi: nel caso esaminato dei giudici amministrativi cagliaritani ad inguaiare il lavoratore era stato proprio l’interlocutore, facendo la spia ai superiori: in sostanza – secondo il Tar sardo – una volta che l’amministrazione apprende il contenuto della conversazione non può non valutarlo sul piano disciplinare. A maggior ragione quando l’incolpato è un militare: l’ordinamento del corpo lascia infatti ampia discrezionalità nel valutare la rilevanza dei fatti.
È quanto emerge dalla sentenza 174/22, pubblicata lo scorso 14 marzo dalla prima sezione del Tar Sardegna che ha confermato la sanzione disciplinare del rimprovero inflitta ad un ufficiale che nei messaggi rivolti ad una (probabilmente ex) amica si lamentava dei superiori: una serie di commenti e valutazioni tali da ledere il prestigio dei vertici locali del corpo e lasciare intendere che il servizio si svolgesse in condizioni di inaffidabilità. Il che, stabilisce l’amministrazione, finisce per «minare il clima organizzativo e la serenità del personale».
In questo caso, secondo i giudici amministrativi, la conversazione non è stata di natura privata come in una precedente sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione, invocata dalla difesa del militare, che faceva viceversa riferimento a una vicenda in cui l’offesa al datore era stata scritta su gruppo chiuso di Facebook e poi divulgata all’esterno.
In questo caso è stata una dei due partecipanti alla conversazione a far conoscere i messaggi al comando, mentre la giurisprudenza di legittimità, ad esempio, non prende in considerazione la natura riservata delle mail denigratorie quando si pronuncia sul licenziamento: valuta la portata diffamatoria del messaggio o l’eventuale esercizio di critica. Senza dimenticare che la diffamazione semplice non richiede la divulgazione nell’ambiente sociale, ma si configura con la mera comunicazione, che può essere privata e pure riservata: mentre la pubblicità della comunicazione è un requisito della fattispecie aggravata. Per i giudici di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “Il datore, poi, non viola libertà e segretezza della conversazione quando a rivelarne il contenuto è uno dei partecipanti. E nella specie non conta che il messaggio sia one to one e non in un gruppo perché la contestazione disciplinare non richiama in alcun modo la configurabilità di una diffamazione rilevante sul piano penale. “Capita spessissimo, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, che si parli male del proprio capo o della propria azienda. Ciò sia tra colleghi sia con amici. Tale comportamento può però essere motivo di licenziamento poiché, se criticare è lecito, offendere non lo è”.
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