In questa terra di mezzo che è la Sardegna post moderna, che dagli anni Cinquanta è stata attraversata dalla modernità – a mo’ di aratro – venendone fuori sfregiata da un solco profondo, che delimita la distanza tra passato e presente, i paesi si trovano ancora, metaforicamente, al di là del guado. Sempre più spopolati, sempre più depredati dei servizi elementari, spolpati dell’identità, messi a nudo da abitanti sempre più metropolitani e individualisti, i piccoli centri, specialmente quelli dell’interno, conservano però, ancora, nel profondo, una propria forma di sacralità. È una voce corale, che emerge dalle case, dalle piante e dalla terra, come l’eco di un antico canto. Di questa Iliade, nostalgica e presente, Emiliano Deiana è da tempo l’aedo. Di quella voce conosce ogni lamento e ogni stridore, ma anche ogni pregio e ogni grazia. L’abbiamo intervistato: per farci raccontare quale ruolo abbiano oggi gli intellettuali in Sardegna, e per domandargli quale futuro vede per questi nostri spogli, infreddoliti, splendidi paesi.

Emiliano, mi racconti qualcosa di te, di dove sei nato e della tua infanzia?

Sono nato per sbaglio a Sassari e sono sempre vissuto a Bortigiadas: il luogo dell’anima mia; il posto che ho deciso di abitare. Ho avuto l’infanzia più meravigliosa che un bambino possa solo sognare di avere: a contatto con la natura, con gli animali, con amici a cui donare la tua stessa vita; gli amici dell’asilo sono ancora oggi i miei migliori amici.
Ho avuto un asino: si chiamava Cicchetto. Se posso entrare subito in argomento: è stato il mio primo intellettuale di riferimento. Dopo ne sono venuti molti altri: Gramsci, Céline, Pasolini, Silone, Sergio Atzeni, Cicitu Masala ecc. Ma è necessario tornare agli asini e alla loro funzione pedagogica e intellettuale. Una volta mio padrino aveva prestato Cicchetto per la corsa degli asini che si teneva in paese: era saldamente in testa fin quando non si presentò l’imprevisto. Poteva vincere agevolmente ma decise di deviare per una via laterale e raggiungere anzitempo la sua stalla. Ancora oggi dopo decenni tutti, in paese, si ricordano del ronzino che aveva scelto di non vincere e nessuno ricorda l’asino che aveva realmente vinto la corsa. In paese sentirono il suo raglio che durò a lungo, ma non era il raglio mistificato dalla tradizione orale e che non raggiunge il cielo: erano delle risate, risa bestiali.

In questa storia ci sono due insegnamenti fondamentali: non sempre è necessario vincere e si ride di se stessi, prima di ridere degli altri.

In quell’infanzia c’era una infezione calcistica che ci portava, nelle lunghe estati, a sfidare la Mamma del Sole. La partita di calcio iniziava la mattina e si interrompeva la sera: avevamo Tepa Sport bucate, maglie improbabili di Platini, Zico, Maradona o Uribe.
Dovevamo sfuggire agli anziani del paese che ci volevano bucare il pallone, alle madri che ci volevano a casa per il pranzo, al prete che ci reclamava per servire la messa. Così conciati abbiamo assistito a una delle più grandi tragedie che abbia mai colpito il nostro paese e la Sardegna intera: l’incendio che devastò per giorni il territorio e che finì tragicamente sulla collina di Curraggia, con nove morti. Ma all’estate segue sempre un inverno: e in uno di quegli inverni ho conosciuto la morte per scelta consapevole di una persona a me carissima. Ho iniziato a leggere tutto ciò che mi passava per le mani; a scrivere ogni cosa che mi passava per la testa. Così sono arrivato fino ad oggi. Ho pubblicato un libro di racconti comici (Bar Sport Democratico), un romanzo de-genere (La morte si nasconde negli orologi); ne ho nel cassetto un’altra mezza dozzina da finire; due silloge poetiche che saranno pubblicate dopo la mia dipartita e un saggio sociologico sulla Sardegna. In un mondo che chiude i luoghi della cultura ho aperto con mio fratello una libreria e l’ho dedicata all’antieroe Bardamù. Ho svolto per tre legislature la funzione di sindaco di Bortigiadas, sono presidente di Anci Sardegna. Ancora vivo.

Chi è, e che ruolo ha, un intellettuale nel mondo di oggi?

Siamo passati dall’intellettuale organico all’intellettuale inorganico: in alcuni casi anche all’intellettuale gassoso. Piuttosto inizierei a chiedermi, in un mondo che pullula di intellettuali autoproclamatisi, cosa e chi non sia un intellettuale. Un intellettuale non è colui che ha l’ardimento dell’autoproclamazione. Perché puoi anche lavorare con l’intelletto, ma ciò da solo non ti dà automaticamente la patente di intellettuale: puoi fare lo scrittore, il maestro, l’attore, il cantante, il cineasta, il poeta senza per questo essere intellettuale. L’intellettuale non è chi sta nel branco, chi si forma delle – piccole o grandi – conventicole, circoli esclusivi, cerchie amicali nei quali il presunto intellettuale si trova al centro, incensato, genuflesso, esaltato. Ho una qualche difficoltà a immaginarmi Sergio Atzeni assiso in un Circolo di Cricket a dispensare giudizi sulla municipalità di Pirri o Cicitu Masala in Piazza d’Italia a disquisire dell’urbanistica di La Landrigga. È più facile, in Sardegna, trovare un intellettuale in un bar di Sant’Elia che in un’Accademia; in un ovile che in una casa editrice; sopra un ambone di una chiesa abbandonata che in una basilica piena d’ori. L’intellettuale è colui (o colei) che dice l’inaudito; chi mostra, attraverso la parola o l’idea, mondi nuovi. L’intellettuale è colui che sa riconoscere torti e ragioni, ma sa all’occorrenza schierarsi ancora dalla parte del torto, degli sconfitti, dei respinti. L’intellettuale è colui che batte piste non ancora battute; non cerca la solitudine, ma è costantemente isolato; non mangia dal truogolo riempito dagli avanzi lasciati cadere dalla tavola imbandita del potere. In Sardegna non è che manchino gli intellettuali: sono nascosti in ogni dove. Funzione degli intellettuali “ufficiali” potrebbe essere quella di dargli voce, rendere palesi le loro parole, le loro idee, le visioni alternative del mondo e del potere. Dovrebbero riscoprire, in luogo dei circoli ristretti, la geografia e il piacere della scoperta: Elio Vittorini potrebbe ancora insegnargli un metodo; i reportage dal cuore della nostra terra di Sergio Atzeni potrebbero costituire una traccia utile di lavoro; gli stessi lavori sociologici sui pastori di Pitzalis e Migheli sarebbero strumenti innovativi per coloro che si autodefiniscono intellettuali dal salotto di casa.

Forse ha ragione Biolchini: cominciamo a dire che nei paesi c’è qualcosa che non va, e che la, paesitudine è un valore solo se sa guardare al futuro e non di ferma a su connottu?

Ci sono persone che, anche quando decidono di dileggiarla, descrivono alla perfezione il sentimento paesitudinario, quel misto di inquietudine e nostalgia per il luogo delle radici, per l’heimat perduta. Ci sono casi in cui all’estetica dello scontro si sostituisce l’etica inconsapevole dell’esaltazione che ci insegna che coi preconcetti non si va da nessuna parte e che le ragioni del cuore – come quelle di Pereira – prendono talvolta il sopravvento.
Si scopre, nelle pieghe sentimentali, che esiste anche una paesitudine urbana, quella delle radici, degli sradicati, quella dei quartieri e dei barrios, quella mitica del pallone per le vie assolate della marina, la nostalgia inquieta dei piatti della nonna, alla domenica, con le poltrone avvolte nel cellophane. Personalmente all’estetica – perché di estetica si tratta: di una forma cosmetica del conflitto – dello scontro preferisco l’etica dell’incontro. Vinicius de Moraes diceva che la vita è l’arte dell’incontro. Solitamente ci si incontra fra diversi; fra chi riconosce dignità al prossimo; fra chi, partendo dalle distanze, è disposto a fare un tratto di cammino insieme: penso a coloro che tardano a concepire l’esistenza di una paesitudine urbana, ad esempio.

Ma essenzialmente, prima di parlarne, occorre capire cosa sia la paesitudine…

La paesitudine è un sentimento e pertanto è battaglia vana quella di coloro che si armano per scontrarsi. Sarebbe come voler fare la guerra contro l’amore, contro la solitudine, contro l’inquietudine, contro la disperazione. Che battaglia è? Che scontro è? Nemmeno Chisciotte avrebbe potuto immaginarsi una guerra contro un mulino a vento così sofisticato come la paesitudine. Tu la vuoi colpire con la lancia dello scontro? Lei ti abbraccia con la dolcezza dell’incontro, te la fa elogiare anche se pubblicamente vorresti disprezzarla. Se poi dall’elogio inconsapevole della paesitudine urbana si vuole passare a dire che nei paesi vanno chiuse le scuole, le poste, le banche; che i paesi devono restare senza medici di base e senza ospedali di prossimità si abbia il coraggio di affermarlo in maniera schietta, senza nascondersi dietro artifici lessicali. Chi lo afferma sappia che noi non praticheremo la cosmesi resiliente dello scontro: in quel caso praticheremo l’etica resistente del conflitto. Tradotto: non abbiamo nessun timore a confliggere sia intellettualmente che politicamente con chi pensa che i paesi e le aree interne debbano morire per lenta consunzione mentre si finge di volerli salvare. Inoltre – se fossi ciò che non sono: ovvero un autoproclamato intellettuale – non commetterei due errori: parlare di cose che non conosco approfonditamente e definire antistorico un movimento che è perfettamente nella storia. Su cosa sia o non sia antistorico me ne potrei uscire con lo stratagemma linguistico benniano dei pesci morti che nuotano con la corrente. Ma eviterò.
Antistorico, a mio avviso, è andare contro ciò che cambiamenti climatici e pandemia ci stanno mostrando in tutta la loro drammaticità. La concentrazione eccessiva è nemica della vita, dell’armonia e del corretto rapporto con la natura: magari una lettura aggiornata delle ultime encicliche di Papa Francesco aiuterebbe cattolici, cattolici critici, atei e agnostici.

Antistorico è immaginare i paesi come il luogo dello svago domenicale dei cittadini annoiati verso il “Grande Sagrificio”.

Anche sul concetto di su connottu facciamo a intenderci: su connottu, in Sardegna e nel mondo, dal ‘700 ad oggi, è il continuo inurbamento e la continua concentrazione di uomini, merci e capitali. Su connottu è immaginare la Sardegna concentrata su tre poli urbani e col resto in uno stato di perenne e crescente abbandono, salvo poi piangere le lacrime di coccodrillo per gli incendi devastanti come quelli del Montiferru che sono il prodotto di decenni di abbandono e di desertificazione antropologica.b Noi siamo contro questo “già visto” perché pensiamo che in Sardegna – torniamo all’arte dell’incontro – si possa vivere e vivere bene sia nelle città che nei paesi; sia sulla spiaggia e nei casotti del Poetto che nelle vette del Gennargentu e del Limbara. Noi delle “terre alte”, ad esempio, siamo sommamente preoccupati dai danni dei cambiamenti climatici, dell’innalzamento dei mari e dei malefici che si produrranno per Cagliari, Olbia, Oristano. Lo siamo in maniera sincera e solidale.

C’è qualcuno, nei salotti buoni delle città, che ne sta parlando? Che si sta ponendo il problema di come salvare le infrastrutture primarie come i porti e gli aeroporti? A me non pare. Dove è il sostegno degli intellettuali à la page alle ragazze e ai ragazzi del Friday for future? 

Sempre fra estetica ed etica: noi siamo per superare l’estetica della competizione fra territori e promuovere l’etica della collaborazione. Le periferie delle città devono tornare alleate delle periferie rurali; l’alleanza capace di cambiare il mondo fra chi vive nei margini, nei confini è un obiettivo profondamente progressista: chi lo descrive come “passatista” vive, lui, nella perpetrazione del passato. Infine: chi ha mai detto (o scritto) che nei paesi è tutto perfetto, è tutto in ordine? Io no di certo. Nei paesi c’è uno straordinario lavoro da fare che ha necessità della resistenza degli abitanti e dell’incoscienza dei visitatori e dei nuovi abitanti; servono occhi nuovi, sguardi nuovi per ripensare noi stessi e le nostre comunità. Serve scrupolo e avventatezza. Vivere in un paese è complicato. Vivi la vita in scala uno a uno: non ti puoi nascondere dai tuoi difetti, dalle tue mancanze, dalle tue evasioni. Se manchi a una messa di morto stai offendendo la memoria e la comunità. Chi pensa (o ha pensato) alla paesitudine come ritorno al “piccolo mondo antico” ha sbagliato indirizzo come ha sbagliato indirizzo chi pensa al “piccolo è bello”: piccolo è difficile, piccolo è complicato, piccolo talvolta è terribile. È questa sentimento che mischia paese e inquietudine; paese e solitudine. In quel confine viviamo e c’è pure chi ce ne fa una colpa. Ma nel frattempo chiedo e mi chiedo: dove si stanno verificando le più grandi innovazioni nelle lettere, nelle arti, nella fotografia, nella cucina, nelle architetture, nei festival culturali? Dove convivono bellezza sfolgorante e abbandoni devastanti, se non nei paesi? Dove si svolge il più avvolgente festival letterario se non a Gavoi? Dove si tiene il più rinomato festival jazz se non a Berchidda?
Quando a una presentazione di un libro a Seneghe o a Neoneli partecipano cento persone è come se a Roma, per lo stesso evento, partecipassero mezzo milione di spettatori.
Quali sono le tre cose da cui ripartire, per rilanciare l’Isola?
Scuola, terra e autodeterminazione politica, economica e fiscale.
Una Sardegna capace di contrattare un nuovo e più avanzato rapporto di poteri con lo Stato italiano e l’Unione Europea; una Sardegna che vede nella dispersione e nell’abbandono scolastico il vero mostro da abbattere (e non la paesitudine): solo lo studio e la cultura emancipano e formano i cittadini; un ritorno acculturato alla terra, alle produzioni in un mondo interconnesso e plurale: heimat e mondo, radici e rami.
I temi, ovviamente, sarebbero molti altri: ma mi autolimito alle restrizioni imposte dall’intervista.

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