Un corteo, pieno di rabbia e d’orgoglio, ha recentemente percorso la strada tra Esterzili e Seulo, nel cuore della Barbagia, per rivendicare uno dei diritti inalienabili di uno Stato di diritto che si rispetti: quello alla sanità. Da troppo tempo i cittadini di molte zone dell’interno della Sardegna sono senza un medico di base. E’ solo l’ultima delle carenze di un territorio che sta precipitando sempre più velocemente verso la desertificazione. “La Sardegna non finisce dove iniziano le montagne” dice uno slogan che sintetizza alla perfezione sentimento diffuso. Ma quali sono le cause dell’attuale malessere? E quali le soluzioni che si possono adottare?
Un passo indietro
Storicamente non è la prima volta che la Sardegna si trova ad affrontare un fenomeno di inaridimento, determinato soprattutto dalla decrescita demografica. L’Isola è sempre stata scarsamente popolata, a cominciare dal tempo della civiltà nuragica. La storia ci dice che già nel passato, remoto e recente, sono stati studiati o immaginati vari progetti per migliorare l’agricoltura, la pastorizia e l’amministrazione. Già i Fenici e i Romani provarono a introdurre nuove forme di economia e a insediare in varie parti dell’isola gruppi di popolazione esterna che nella condizione di liberi coloni e anche di schiavi venivano impiegati non solo a combattere le rivolte locali ma usati per rimpinguare le popolazioni. Ma la condizione demografica dell’isola non cambiò molto.
Anche i Piemontesi prima e il Fascismo poi provarono a realizzare vari progetti di riforma, ma con scarsi risultati, se si eccettuano i casi di Carloforte nel Settecento e di Arborea, Carbonia e Fertilia nel Novecento. Caso a parte fu la creazione della Provincia di Nuoro, che immise nel sistema delle aree pastorali una componente pubblico-amministrativa e trasformò Nuoro da grande borgo agropastorale in una piccola città, senza però cambiare la realtà di fondo nuorese e tantomeno intaccare quella già consolidata delle zone più interne della nuova provincia.
I Piani di Rinascita
Il più importante tentativo di trasformare la Sardegna dell’interno avvenne con i così detti Piani di Rinascita. Il Piano si basava anch’esso su una legge speciale, la 588, approvata dal Parlamento l’11 giugno 1962 dopo una lunga rivendicazione – promossa soprattutto, ma non solo, dalla sinistra – iniziata nel 1950, un anno appena dopo la nascita della Regione. La riforma prevedeva una serie di misure volte a realizzare un vasto processo di modernizzazione di tutti i settori della vita associata, coinvolgere le diverse popolazioni locali nel processo di sviluppo, realizzare la massima occupazione, valorizzare le risorse dei diversi territori e sviluppare un moderno sistema industriale.
Per realizzare gli obiettivi del Piano furono creati in tutti i settori nuovi strumenti, una specifica rete pubblica e privata per favorire lo sviluppo: essa comprendeva cooperative di primo e secondo grado agricole, artigianali e commerciali, consorzi di bonifica, consorzi industriali, istituti di credito, la Società finanziaria regionale, i Comitati zonali per lo sviluppo, i comprensori turistici, i centri di addestramento professionale, i centri di assistenza tecnica, oltre, ovviamente, alle nuove e specifiche strutture interne all’amministrazione regionale quali il Comitato esperti, il Comitato di consultazione sindacale, il Comitato di coordinamento, l’Assessorato alla rinascita e il Centro di programmazione.
Il fallimento di quelle politiche ha provocato una frattura profonda nelle comunità dell’interno, che è prima di tutto antropologica e sociale che economica. Così assistiamo all’esodo delle forze più vitali dall’interno verso le città, che dissangua i territori e li le condanna al declino – e in qualche caso le avvia all’estinzione.
Per bloccare questa diaspora non basta un ritorno a “su connottu”, un ripasso del passato non colma i vuoti esistenziali. Le forme e i modelli di vita e di lavoro a cui aspirano le nuove generazioni nate dopo l’evoluzione economica e dotate di un livello d’istruzione superiore si pongono infatti naturalmente obiettivi difficilmente realizzabili nelle zone di residenza. Ed è questo che provoca l’emigrazione verso le città.
Riprogrammare il futuro vuol dire rimettere i paesi al centro dell’agenda politica. Mettere in campo un nuovo piano di sviluppo per l’intera isola: un piano che abbia come obiettivo la realizzazione di un nuovo e più giusto equilibrio economico e sociale che unisca la Sardegna e non costringa le sue varie parti a combattere l’una contro l’altra, come sta succedendo da qualche tempo. La politica deve ritrovare un’anima, un cuore e una mente, fare in modo che tutti abbiano una visione unitaria, considerino la Sardegna un unicum, si impegnino a creare un sistema capace di garantire un equilibrio stabile e il più possibile paritario, accettabile da tutte le sue componenti.
L’obiettivo deve essere mantenere l’unità. Se non si parte da questa posizione – siamo tutti nella stessa barca che affonda – se si continua ad affrontare la politica come una partita di calcio dove ci sono vincitori e vinti e tutti finiscono sconfitti, la crisi delle aree interne coinvolgerà l’intera isola e i problemi diventeranno conflitti, portando alla fine dell’unità sociale, culturale, economica e persino politica dei sardi. La crisi diventerà irreversibile. Le ombre già si allungano sul far della sera.
Il tempo è maturo per un cambio di passo.
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