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E’ uscita dal carcere, dopo 17 giorni a San Vittore, Cecilia Marogna, la 39enne manager cagliaritana indagata nell’inchiesta vaticana sull’ex numero due della Segreteria di Stato, il cardinale Angelo Becciu, e arrestata il 13 ottobre su mandato di cattura della Santa Sede, tramite l’Interpol.

Oggi la quinta Corte d’Appello di Milano ha accolto l’istanza dei legali rimettendola in libertà, in attesa della decisione sull’eventuale estradizione, e disponendo per lei solo l’obbligo di firma con divieto di espatrio e consegna del passaporto. “Un atto di giustizia” contro un arresto “incivile”, hanno commentato gli avvocati Massimo Dinoia, Fabio Federico e Maria Cristina Zanni.

Nell’ordinanza i giudici (Matacchioni-Arnaldi-Siccardi) spiegano, in pratica, che la sua consegna dall’Italia al Vaticano non è per nulla scontata, anche perché i legali hanno sollevato una questione centrale. I difensori hanno sostenuto, in una memoria di 19 pagine, che Marogna, accusata dalla magistratura d’Oltretevere di peculato e appropriazione indebita aggravata, non poteva essere arrestata “dato che l’accordo tra Italia e Vaticano”, basato sull’articolo 22 dei Patti Lateranensi, “consente l’estradizione dal Vaticano all’Italia”, ma non viceversa.

I promotori di giustizia del Vaticano in un atto del 19 ottobre hanno chiarito che, sebbene “non sussistano accordi bilaterali specifici” tra Italia e Santa Sede, entrambi gli stati “hanno aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione”. Per la Corte, tuttavia, “la difesa ha introdotto una complessa tematica in ordine alla possibilità di concedere l’estradizione” di Marogna, “relativamente alla quale si intravedono profili di apprezzabile sostenibilità, certamente suscettibile di ulteriore e doverosa valutazione”, quando sarà esaminata la richiesta di estradizione (udienza da fissare). La Corte fa notare che Marogna “è cittadina italiana e vanta un indubbio radicamento sul territorio nazionale”. E l’esigenza “di garantire” che non “si sottragga all’eventuale consegna” può essere tutelata dall’obbligo di firma e non serve il carcere, la “cui necessità non è stata, peraltro, al momento nemmeno dimostrata”. E se Marogna deve rispondere di aver usato, “cospirando con altri individui”, parte del mezzo milione di euro ricevuti per operazioni segrete umanitarie in Asia e Africa anche per l’acquisto di borsette e altri beni di lusso, i suoi legali nella memoria entrano nel merito. E evidenziano che sei giorni prima dell’arresto, proprio quando “si è ipotizzato un inesistente e astratto pericolo di fuga”, lei chiese “di potersi recare” in Vaticano. Con una email al Segretario di Stato Pietro Parolin:

“Le confermo – scrisse – la mia disponibilità ad incontrarla”. Sempre la difesa mette in luce che Marogna ricevette “l’incarico” di attivarsi nelle ricerche di una “suora colombiana”. Incarico con cui aveva “individuato altre due persone”, ossia “padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio”. E la “riprova” starebbe nella stessa mail a Parolin, al quale scriveva pure di aver “informato della fase ultima” un rappresentante dell’Aise. I soldi da lei ricevuti, a detta dei difensori, erano in parte anche il suo “compenso”, di cui “avrebbe potuto disporre a piacimento”, come ha fatto, anche in negozi di lusso. Per la difesa “non c’è denaro pubblico, non c’è un pubblico ufficiale, non c’è alcun fine istituzionale”. E l’indagine, tra l’altro, sarebbe nata da una “asserita” segnalazione “anomala” della polizia slovena al Vaticano, “tramite la Nunziatura di Lubiana”.