Foto Ansa

I leader dei paesi membri dell’Ue si sono riuniti nel palazzo del Consiglio, per un incontro del quale si conosce la data d’inizio, ma non quella della fine. Le prime dieci ore di confronto servono solo a ribadire le già note posizioni, “molto distanti” secondo la cancelliera Merkel, in attesa di entrare nel vivo del negoziato che di fatto parte dopo cena, non appena il presidente del Consiglio Charles Michel mette sul tavolo una nuova proposta. Non è quella risolutiva però, perché dopo 13 ore di vertice i leader, ancora lontani su tutto, si danno appuntamento al giorno dopo. Il confronto a 27 della mattina e del primo pomeriggio non è andato benissimo, ma era tutto previsto. I leader sono soli, senza assistenti e con un’ampia distanza che li separa, sia fisica che metaforica. E non perdono l’occasione per sottolinearla, perché tutti sono determinati a battersi per i propri interessi, guardati a vista dai rispettivi Parlamenti che quell’accordo dovranno poi approvare. Non è un tutti contro tutti, ma una guerra tra bande.

La prima ad esplodere, annunciata già alla vigilia, è tra il premier Conte e l’olandese Rutte. “La tua proposta sulla governance del Recovery fund è incompatibile con i trattati e impraticabile sul piano politico”, gli si rivolge il premier riferendosi all’unanimità del voto in Consiglio (leggi diritto di veto) che l’olandese reclama per gli esborsi europei. “Non la beviamo”, replicano dall’Aja. “Questa è una situazione eccezionale che richiede una solidarietà eccezionale, per la quale si possono trovare soluzioni straordinarie. Occorre essere creativi”, insistono fonti olandesi. Anche lo spagnolo Sanchez affronta Rutte davanti a tutti, prendendo a lungo la parola contro l’idea dell’unanimità a cui l’Olanda non vuole rinunciare. Al momento dei bilaterali, è chiaro che la questione della governance è uno degli ostacoli da rimuovere prima di proseguire e parlare delle cifre del Recovery e del bilancio. Michel si riunisce con la Merkel, Macron e la von der Leyen per fare il punto, e nasce l’idea di un compromesso. Gli Stati avrebbero la possibilità di ricorrere ad una sorta di ‘freno d’emergenza’ che bloccherebbe i pagamenti del Recovery Fund se non ci fosse consenso tra i governi, rimandando la questione ai leader. Il meccanismo verrebbe applicato nella fase di attuazione dei piani nazionali di riforma, non sul loro ok iniziale. Michel lo illustra a Rutte in bilaterale, e poi lo mette sul tavolo della cena a 27. Ma per il premier olandese non è sufficiente, e torna alla carica sull’unanimità. Conte, pronto a battersi a oltranza per portare a casa il risultato, non è disposto ad accettare regole che ostacolino l’utilizzo dei fondi, come ha ripetuto fin dai giorni scorsi.

Inoltre, l’obiettivo dell’Italia è difendere con le unghie e con i denti i 750 miliardi del Recovery fund, dai quali guadagnerebbe 81 miliardi di sovvenzioni a fondo perduto. Su questa battaglia può contare sull’appoggio di Macron, che pure non accetta tagli perché non vuole ridurre l’ambizione del piano di rilancio dell’economia europea. Ma dopo 13 ore di vertice, l’austriaco e frugale Kurz smorza le speranze: Vienna è contraria ai 500 miliardi di sovvenzioni, perché non vuole che si crei “un’Unione dei debiti a lungo termine”. Altro grande ostacolo è la questione della condizionalità legata allo stato di diritto, su cui Polonia e Ungheria hanno alzato le barricate. La proposta di Michel sul Recovery fund lega gli aiuti al rispetto delle regole democratiche e dei valori europei. Ma Ungheria e Polonia sono sotto procedura proprio per il mancato rispetto dello stato di diritto, e quindi non solo chiedono di cambiare la proposta sul tavolo ma anche di rivedere quell’articolo 7 del Trattato Ue a causa del quale sono finite a rischio sanzioni.

Il negoziato è tutto in salita: chiudere entro il weekend, come auspicava Conte all’inizio del vertice, impresa quasi insperata. “Ci sono divergenze”, ammette il premier italiano. Che si oppone anche al meccanismo che darebbe il 70% di risorse nel 2021 e il resto dopo due anni, purché il Pil del Paese sia sotto la media europea: l’Italia, stando alla tendenza degli ultimi anni, non rischierebbe di perdere i fondi, ma non potrebbe programmare – è la linea del premier – investimenti su diversi anni. Ma è soprattutto sul no al potere di veto che Mark Rutte vorrebbe assegnare ai singoli stati che Conte tiene il punto. E’ vitale non ridimensionare la proposta di Recovery fund per affrontare un autunno caldo e una maggioranza fibrillante. E’ essenziale per rendere credibile quel programma di Rilancio su cui, come annunciato dal ministro Roberto Gualtieri, da lunedì inizierà a lavorare un’apposita struttura e per resistere ai colpi di un fronte sovranista fiaccato ma combattivo. A Roma questa volta non mancano gli alleati in Consiglio, perché il Coronavirus ha colpito duramente tutto il Vecchio Continente. Ma all’ultimo miglio l’impuntatura dell’Olanda minaccia di far digerire all’Italia norme capestro: per evitarlo Conte cerca la sponda di Macron e Merkel, e con un intervento durissimo davanti agli altri leader si mostra pronto a usare ogni arma di trattativa. Fin dalla riunione plenaria dei ventisette leader europei, il presidente del Consiglio trova conferma dell’asse con lo spagnolo Pedro Sanchez ma anche con Emmanuel Macron.

Mentre Angela Merkel, anche in virtù del suo ruolo di presidente di turno dell’Unione, resta in ascolto nelle sette lunghe ore di riunione plenaria. La cancelliera, che proprio il 17 luglio compie gli anni, è ancora una volta centrale per sciogliere un negoziato che si articola sui due tavoli di Next Generation Eu e Bilancio pluriennale, e che potrebbe essere bloccato dai veti. Negli auspici di Palazzo Chigi c’è la chiusura del negoziato già questo weekend, o al massimo in un secondo round all’inizio della prossima settimana, per evitare che i veti contrapposti trascinino il Recovery fund in una palude da cui sarebbe difficile uscire. La consapevolezza è che Rutte è motivato dalle imminenti elezioni in Olanda, che lo vedranno impegnato in una difficile sfida ai sovranisti, e venderà cara la pelle. Lo scontro in Consiglio è la riprova che, al di là degli attestati di amicizia reciproca, il primo ministro dei Paesi Bassi non cederà alla richiesta italiana di lasciare alla sola Commissione il controllo sui piani di riforma nazionali cui vincolare i fondi. Conte e Sanchez al tavolo del vertice difendono lo schema che era stato proposto in prima battuta da Ursula von Der Leyen: valutino i commissari (incluso il responsabile dell’Economia Paolo Gentiloni). Ma sanno che la proposta di sottoporre al giudizio, a maggioranza, dei capi di governo i Recovery plan nazionali è stata sposata da Merkel: da lì difficilmente si tornerà indietro.

La trincea italiana è evitare che il meccanismo venga irrigidito ulteriormente, dando ai singoli Paesi un sostanziale potere di veto. Per Conte sarebbe inaccettabile: il premier lo spiega a Rutte, davanti agli altri 25 leader, citando i trattati europei. Ma l’olandese ribatte a muso duro. In un clima che fonti diplomatiche definiscono “costruttivo” e “responsabile”, ma che per ora non consente di avvicinare le distanze. Va bene seguire le linee guida di riforme che vadano nella direzione della riconversione “verde”, della semplificazione, della digitalizzazione. Ma Roma non può accettare di vedersi imposta riforme come quella di “quota 100” o del mercato del lavoro. Il punto debole di Rutte nella trattativa è la sua difesa dei “rebates”, fondi spettanti a L’Aja nell’ambito del bilancio pluriennale. E anche se l’Italia sceglie per ora la via negoziale, porre il veto per rispondere al veto olandese resta un’opzione sul tavolo. In un Consiglio europeo che minaccia di protrarsi per giorni, per ora si segnano le posizioni. La strada è tutta in salita. Conte ha una sola certezza: non può cedere, non può abbassare troppo l’asticella. Solo un piano “ambizioso” può rinviare l’appuntamento con la difficile decisione sull’accesso al Mes. Solo risorse ingenti possono togliere altro ossigeno ai sovranisti italiani e armi ai tifosi di un governo di unità nazionale che salvi il Paese dal baratro della crisi.