Il lessico e il linguaggio utilizzati, nella cronaca, per raccontare le storie di suicidi sono spesso e volentieri inadeguati e la maggior parte delle volte superano di gran lunga il limite preciso tracciato dalla deontologia del giornalismo. La cautela è, e dovrebbe essere, sempre alla base della scelta di pubblicare una notizia così difficile da riportare. Una ricerca scientifica dell’Organizzazione mondiale della sanità ha provato l’esistenza di una correlazione tra l’uscita di notizie che riguardano i suicidi e l’aumento di decessi similari nel periodo immediatamente successivo alla pubblicazione.
Tutto questo ci deve far riflettere e dovrebbe far riflettere anche una categoria di persone specifica, quella dei giornalisti, che ha un ruolo importantissimo e che spesso dimentica che “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Fatta eccezione per pochi e straordinari casi in cui il diritto-dovere di cronaca prevale, per forza di cose, sul rispetto della privacy e sull’importanza “dell’effetto Werther”, di fronte al suicidio non devono essere divulgate le generalità di chi ha deciso di togliersi la vita, né altri particolari che rendano la vittima in qualche modo identificabile.
Dati personali, indirizzo, città e modalità attraverso le quali la persona ha deciso di porre fine alla sua vita sono tutti elementi imprescindibili per il professionista nell’affrontare giornalisticamente un evento di questo tipo, ma spesso ci dimentichiamo anche delle regole più semplici. Episodi di scarsa rilevanza, fatti personali che riguardano persone la cui vita non è certo di dominio pubblico, uomini e donne “normali” insomma, che non ricoprono ruoli pubblici, non possono e non devono finire al centro dell’attenzione dei media.