“Se verrò condannato, sarò condannato da innocente”. Poche parole, scandite in videoconferenza dal carcere nuorese di Bad’e Carros nel quale è rinchiuso da cinque anni. L’ex bandito Graziano Mesina, poco prima che la Corte d’Appello di Cagliari presieduta dal giudice Giovanni Lavena confermasse la sua sentenza a 30 anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, ha lanciato il suo ultimo appello. Secondo i magistrati della Direzione distrettuale antimafia sarda – guidati dal procuratore aggiunto Gilberto Ganassi – il 76enne di Orgosolo sarebbe stato ai vertici di due bande: una cagliaritana guidata dal boss Gigino Milia (per lui in primo grado è stato deciso il non doversi procedere per ragioni di salute), l’altra con a capo lo stesso Mesina e con base nel suo paese natale, nel cuore della Barbagia.
Con la conferma della condanna viene spazzata via anche la grazia che l’ex primula rossa aveva ricevuto dal presidente della Repubblica nel 2004, dopo aver trascorso 40 anni dietro le sbarre. L’imputato più noto del banditismo sardo era stato arrestato il 10 giugno 2013 in un blitz che puntava a sgominare l’attività delle due organizzazioni, 26 affiliati in tutto: per molti era scattata la contestazione di associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga dall’Italia alla Sardegna, ma anche estorsioni e altri gravi reati. Quasi tutti avevano scelto l’abbreviato, tranne Mesina, Gigino Milia, Vinicio Fois e l’avvocato Corrado Altea, il legale che secondo la Dda avrebbe fatto vari piaceri ad una delle bande. Anche lui è stato condannato: 16 anni di carcere, confermati oggi in appello. Già nel processo di primo grado, Mesina (assistito dalle avvocate Beatrice Goddi e Maria Lusia Vernier) si era difeso negando qualsiasi legame con il traffico di stupefacenti e gli altri reati a lui contestati.
“Droga? Mai toccata in vita mia – aveva detto in aula davanti al collegio presieduto da Massimo Poddighe – mai nessuno può dire di avermi visto anche solo ubriaco. Se vedo la droga, neanche so che cosa sia”. Rivolgendosi poi direttamente ai giudici cagliaritani, l’ex bandito aveva attaccato: “Il pubblico ministero sta chiedendo per me la pena di morte. Non si dica che in Italia non c’è, perché se mi danno oltre i sei mesi, qualsiasi condanna equivale ad un ergastolo. Dunque ad una pena di morte”. La prima condanna è arrivata due anni fa: 30 anni. Anche nel processo d’appello, Graziano Mesina ha ripetuto di non aver mai avuto nulla a che fare con traffici illeciti.
“Mi mantenevo con vari lavori – ha spiegato in aprile ai giudici di secondo grado – rilasciando interviste a pagamento. Facevo anche intermediazioni: mi sono occupato di un affare della figlia di Berlusconi vicino Olbia, perché un pastore che c’era da anni in quelle aree doveva essere sfrattato e sono stato contattato perché si mettessero d’accordo”. Tuttavia oggi, dopo una breve camera di consiglio, la Corte d’Appello ha accolto la richiesta del sostituto procuratore generale Michele Incani, confermando integralmente la sentenza di primo grado nei confronti di Mesina. Lui l’ha ascoltata in silenzio, in piedi, collegato in diretta dalla piccola saletta di Bad’è Carros. “Dopo tutti questi anni trascorsi in carcere – ha confidato alle sue avvocate una volta emesso il verdetto – dopo aver ricevuto la grazia, arrivato alla mia età, mai avrei potuto commettere i reati che mi hanno contestato per rischiare di morire in carcere”.