Si infiamma la situazione in Medio Oriente. Dalla Cisgiordania a Gaza, i palestinesi si sono ribellati al riconoscimento da parte degli Usa di Gerusalemme capitale di Israele. Dalla Striscia il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha chiamato alla terza Intifada contro “l’occupazione e il nemico sionista”, mentre gli scontri nei Territori hanno fatto registrare oltre cento feriti. “Il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele – ha tuonato Haniyeh – è una dichiarazione di guerra nei nostri confronti”. Parole riecheggiate dai canali dell’Isis e di al Qaida, che hanno minacciato di attaccare le ambasciate americane e israeliane. Mentre dal Libano il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha annunciato “un’immensa manifestazione popolare” per lunedì a Beirut. In serata due razzi sono stati lanciati dalla Striscia verso il sud di Israele, ma sono caduti all’interno dell’enclave palestinese. La popolazione delle aree israeliane, al suono delle sirene di allarme, è corsa comunque nei rifugi. Qualche ora dopo è arrivata la risposta di Israele, con colpi di tank e un’incursione aerea che hanno bersagliato due postazioni di Hamas nella parte centrale di Gaza.

Al secondo giorno di rabbia palestinese, e alla vigilia del venerdì di preghiera, la tensione insomma cresce sempre di più. Il bilancio degli scontri nelle manifestazioni di oggi che hanno punteggiato i Territori (da Betlemme, i più gravi, a Hebron, da Ramallah a Tulkarem, a Nablus) è di oltre 100 feriti palestinesi. Molte le bandiere Usa bruciate e le effigi di Trump e Netanyahu date alle fiamme durante le proteste accompagnate dallo sciopero generale proclamato in tutti i Territori. Davanti alla Porta di Damasco a Gerusalemme – oggi semideserta, con il traffico ridotto e gran parte dei negozi arabi chiusi per lo sciopero – una manifestazione si è trascinata a lungo con slogan che rivendicavano l’appartenenza araba della città. L’esercito israeliano, già in stato di allerta, ha annunciato l’invio nei Territori di “un certo numero di battaglioni” per fronteggiare la nuova fase di allarme. Gli occhi sono ora rivolti a quello che si teme possa succedere domani al termine della giornata di preghiera sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme e in Cisgiordania. “Facciamo appello affinché domani 8 dicembre – ha rivendicato Haniyeh – sia il giorno in cui si scatenino la collera e l’Intifada palestinese contro l’occupazione a Gerusalemme e nella Cisgiordania”. E mentre il premier Benyamin Netanyahu – che in questa fase ha unito maggioranza e opposizione – ha preannunciato che presto altri Paesi seguiranno gli Usa, il presidente Abu Mazen è corso in Giordania ad incontrare re Abdallah per “consultazioni urgenti”. “Siamo in contatto con altri Paesi affinché esprimano un riconoscimento analogo – ha detto Netanyahu – e non ho alcun dubbio che quando l’ambasciata Usa passerà a Gerusalemme, e forse anche prima, molte altre ambasciate si trasferiranno. E’ giunto il momento”. Abu Mazen e Abdallah gli hanno risposto ricordando che la mossa di Trump “rappresenta una violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni della legittimità internazionale”. In un altro passo pieno di significato politico, il premier Rami Hamdallah è andato a Gaza per rilanciare la riconciliazione palestinese, in primis Hamas, appannatisi nei giorni scorsi. Nel subbuglio internazionale creato dalla dichiarazione di Trump, l’Europa ha preso le distanze dall’alleato Usa: l’annuncio della Casa Bianca su Gerusalemme – ha sottolineato il capo della diplomazia Ue, Federica Mogherini – ha “un impatto potenziale molto preoccupante”, perché avviene in un “contesto fragile” e potrebbe “farci tornare indietro ai tempi più bui”. Un giudizio rimbeccato da Israele in serata: il ministero degli Affari Esteri, retto ad interim da Netanyahu, ha detto che quelle parole “lasciano perplessi” perché “la negazione che Gerusalemme sia la capitale di Israele” rifiuta “un indiscutibile fatto storico” e “allontana la pace creando aspettative nei palestinesi che sono fuori dalla realtà”.