La sollevazione mediatica a cui stiamo assistendo in queste settimane riguardo l’orda di molestie sessuali consumate dietro i riflettori dello star system mondiale, fa emergere nella sua fulgida pienezza l’etimologia di una parola determinante per capire quanto sta accadendo; una parola che fin dall’antica civiltà greca, passando per il monologo seicentesco di Moliere, enuclea in sé tutto il moralismo – non dunque la morale – che permea l’involucro della società borghese: ipocrisia.

Sappiamo certamente che spezzare i meccanismi dei cicloni mediatici diventa sempre più impossibile, e di certo non è questa la battaglia da combattere: la società dello scandalo vive e si alimenta di una domanda economica e culturale che mette lo scandalo al centro di tutto. Il punto, allora, è un altro, e ha a che fare con la necessità di costruire coscienza e consapevolezza, civica e civile.

LA SOCIETA’ DEL DIRE. L’informazione, i linguaggi social, perfino la pubblicità sono, oggi, gli esecutori quotidiani di questo perverso meccanismo di ipocrisia collettiva. Il bisogno di dovere dire sempre qualcosa (la società del dire) – dirla a tutti e a tutti i costi – il bisogno di esserci, di allinearsi, di uniformarsi; il bisogno di un titolo da scrollare, da modificare minuto dopo minuto, da rendere virale, rappresenta la ragione per cui la maggior parte delle testate giornalistiche contemporanee – anche quelle più autorevoli e referenziate – si legano ad una logica di aggiornamenti ininterrotti, non più di contenuti reali, ricercati o approfonditi. Prevale, insomma, la costruzione di flussi comunicativi basati sulla quantità non più sulla qualità. Tutto questo, allora, diventa il collo d’imbuto che conduce all’esasperazione di una notizia, alla distorsione dei dati, al vero che diventa falso, e viceversa.
Ci ritroviamo in questo modo dentro un’arena dominata da una bolgia incontrollata, dove il popolo (sedotto da sirene qualunquiste e pavidi infingimenti) urla ed incita al di più, al processo, alla condanna. Sempre e comunque. Senza se e senza ma.

COS’E’ VIOLENZA? Siamo tutti contro le molestie e i ricatti a sfondo sessuale, su questo non si discute. Tuttavia, alcune domande, in questi giorni di denuncia e autodenunce a getto continuo, bisogna porsele. Ad esempio: ci sarà pure una gradazione fra la molestia che rasenta la violenza e le normali tecniche della seduzione? A ritroso, forse, ci saremmo dovuti indignare di tanti artisti del passato – pittori, scrittori, poeti, scultori – che invece oggi ammiriamo nonostante la loro vita sia puntinata di episodi equivoci di molestie. Che facciamo allora? Vogliamo cancellare il loro nome dalla storia come oggi sta accadendo con Kevin Spacey e Harvey Weinstein? Ecco, il punto è questo: tutto è violenza, tutto è abuso, tutto è tabù.
C’è una elementarità binaria del pensiero, c’è il dominio della superfice, l’abito e le sue pieghe che prevalgono sul corpo; quasi come fosse in atto un vero e proprio regresso del pensiero. C’è, ancor più, l’esigenza di appiattire o far scomparire ogni diversità, e quindi anche ogni rapporto di potere, che non è mai unidirezionale, ma comporta sempre l’esistenza di due poli.

IL PENSIERO UNICO. E veniamo così all’altro aspetto centrale: perché i media occidentali, quelli che dovrebbero rappresentare la coscienza critica dell’opinione pubblica, una palestra di pluralismo e di critica, hanno completamente abdicato al proprio compito, scegliendo la comodità del conformismo e del “pensiero unico”?
Non ci sono risposte certe, però va detto che tutto quello che sta accadendo oggi poteva essere una buona occasione per parlare del rapporto di genere, della relazione fra corpo e potere, per riportare al centro del dibattito il tema delle parti opportunità nel lavoro, nelle imprese, negli ambiti accademici. E invece siamo qui, a dover inseguire il ciclone passeggero di chiacchiere da bar, di denunce strumentali che diventano un palcoscenico provvisorio per ragazze che ambiscono alla notorietà mediatica davanti a un pubblico di lettori, di spettatori, di cittadini imbalsamati sempre più dall’unguento dell’ipocrisia. La salvezza, in fondo, non è poi così vicina.

di Silvana Maniscalco – Donna Ceteris