Era uno dei prodotti di eccellenza dell’agricoltura sarda, del Campidano e del Sarcidano in particolare, delle colline di Barumini e Tuili, di Sanluri e Villamar, ma con un colpo di mano è stato scippato alla Sardegna. In merito abbiamo sentito la giovane Presidente consorzio sardo grano Cappelli,Laura Accalai, perito agrario con una laurea in Scienze forestali e Ambientali conseguita all’Università di Firenze. Dal 2012 inizia a lavorare presso la ditta sementiera fondata dal padre Santino e nel 2014 viene eletta presidente del Consorzio Sardo Grano Cappelli, che ha sede a Tuili. Giovane, esperta ed agguerrita presidente del Consorzio che conta un centinaio di soci tra produttori, mugnai, pastifici ed un birrificio. Un’intera filiera messa in ginocchio che si trova in giacenza oltre 15mila quintali di grano.
“La nascita del grano duro Cappelli – spiega la Accalai, – avvenne per mano di uno dei più grandi genetisti italiani, Nazzareno Strampelli, che nel 1925 tramite un incrocio naturale selezionò una varietà da rese maggiori, una varietà a disposizione degli agricoltori. La passione per il suo lavoro mise in evidenza la sua volontà di non voler riscuotere le royalties per lo sfruttamento commerciale di tutte le varietà che selezionò. Il Cappelli in particolare fu il suo cavallo di battaglia, la varietà più diffusa tra i grani duri sino agli anni 60, quando incroci più complessi e meno naturali permisero la selezione di varietà molto più produttive e di conseguenza determinarono la sua scomparsa. Oltre trent’anni di silenzio dove la quantità faceva da padrone a discapito della qualità nutrizionale, un silenzio che nella regione Sardegna ha sentito l’eco della tradizione e del bisogno di quei prodotti veri, capaci di insaporire e soddisfare il palato. Nel Sarcidano, provincia storica della Regione Sardegna vengono ritrovati i semi da un vecchio agricoltore. Siamo negli anni 90, quando il proprietario della Ditta sementiera, la Selet, richiese di poter di nuovo certificare la varietà di grano duro Cappelli, proprio grazie a quei semi. Passarono anni di riadattamento della varietà al territorio e al clima, con iniziali rese basse e via via sempre maggiori che permisero nel 1997 la certificazione dei primi 50 quintali, divenuti nel 2016 quasi 8 mila”.
Un lavoro di trent’anni che improvvisamente si è fermato “a favore di un altra ditta sementiera, la Sis di Bologna, che lavora in un territorio, quello emiliano-romagnolo, più vocato per la coltivazione dei frumenti teneri. Un passaggio di testimone avvenuto tramite una manifestazione d’interesse presentata dal Crea, il Centro di cerealicoltura (ente pubblico) nel giugno 2016, con una procedura poco chiara: un bando non ad evidenza pubblica, con un unico responsabile nella commissione decisionale, il tutto presentato nel sito Crea solamente 15 giorni prima della scadenza”.
Quali sono stati gli sviluppi? “La Selet, che negli anni diventa impresa al femminile, partecipa al bando. Il riscontro positivo del loro piano evolutivo e divulgativo della varietà Cappelli, li fa accedere alla seconda fase. Qui la sorpresa e l’incredulità, un prezzo di royalty aumentate del 450% in più, condizioni troppo onerose per continuare uno sviluppo di crescita sul Cappelli. Seguirono mesi di silenzio quando il 24 maggio 2017 esce l’articolo che incorona la ditta sementiera di Bologna la Sis, Società italiana Sementi, come unica esclusivista della varietà Cappelli, avvalendosi dei meriti di rilancio della varietà sul mercato, un rilancio nato dalla Sardegna, un rilancio compiuto dalla filiera sarda con l’unione di tutte le filiere nazionali che hanno contribuito e creduto in questa varietà, e la Sis tra queste realtà non ne fu mai parte. Tante filiere nazionali che vedono bloccate le loro prospettive di crescita sulla varietà Cappelli, in quanto i nuovi esclusivisti impongono contratti di monopolio sulla semente: “noi vi diamo il seme e ci riprendiamo il 100% del raccolto e se vuoi il seme lo ricompri”
“Dov’è finita la libertà sui semi e sul cibo? Perché un ente pubblico come il Crea permette il controllo monopolistico di una varietà che loro stessi nel bando chiedevano di divulgare sempre più? Com’è possibile che abbia vinto questo bando una realtà che in questo momento non ha grano Cappelli da destinare al mercato ( ricordiamo nel 2016 in totale son stati certificati 12mila quintali) e priva le filiere nazionali del loro lavoro? Com’è possibile che il lavoro della Selet non venga preso in considerazione nonostante la sua forte tradizione e storia sulla varietà Cappelli?”, si domanda la stessa Laura Accalai.
“Il consorzio sardo grano Cappelli –prosegue la giovane Presidente del Consorzio sardo – sta agendo per avere chiarimenti su tutti i fatti accaduti in quanto tutta la passione messa in campo dall’intera filiera per valorizzare la semente Cappelli, che è solo un inizio di rilancio di tante varietà che rispettano l’ambiente e il nostro organismo, non venga annullata da menti che più che divulgare vogliono boicottare. Si è rilanciata una qualità di vita da tempo dimenticata, ed è doveroso che ogni filiera debba essere libera di scegliere senza che le vengano imposti i modi e i costi che dettano loro”.
Ora però nei silos del Consorzio giacciono oltre 15mila quintali di grano. Un vero e proprio dramma per gli agricoltori. “La filiera del grano Cappelli – spiega Roberto Congia, produttore di Sanluri – ci ha dato in questi anni una buona remunerazione per ettaro, ridandoci speranza sul futuro del nostro lavoro. Il rischio che tutto questo finisca è inaccettabile per noi produttori. Non può una filiera sana, che funzionava bene da sola, essere messa in ginocchio da poteri forti”.
“Non capisco perché questo grano non sia libero – prosegue Congia -, non lo possano coltivare tutti in maniera libera, non possono esser buttati via 20 anni del nostro lavoro che ha rimesso sul mercato questa varietà di grano, portandolo tra le prime produzioni di grano da seme in Sardegna e nel resto l’Italia. Occorre che tutta la politica sarda, in maniera trasversale, si monoliti per difendere questa filiera. E’ inaccettabile che noi sardi siamo scippati di questa varietà di grano, che non è una perdita solo per il nostro consorzio, ma per l’economia dell’intera isola – conclude il produttore -, soprattutto per molti piccoli comuni, dove una delle poche realtà produttive è questa filiera”.