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Lavoro in Sardegna, il 58% dei nuovi posti è stagionale: laureati in fuga

La Confederazione Nazionale dell'Artigianato ha presentato uno studio sul lavoro in Sardegna, tra punti critici e i rischi per il futuro

L’isola sta vivendo una fase di crescita occupazionale, ma i miglioramenti si innestano in un sistema produttivo ancora fortemente ancorato a settori tradizionali, a bassa innovazione e con una fragile tenuta strutturale. È quanto emerge dalla ricerca realizzata da Cna Sardegna dal titolo “Sardegna al lavoro, analisi e scenari di mercato tra innovazione, IA e nuove competenze: quale futuro per l’occupazione”, presentata oggi a Cagliari.

Alla conferenza di questa mattina all’Holiday Inn hanno partecipato, tra gli altri, la governatrice Alessandra Todde e il presidente Nazionale della Cna Dario Costantini.

Tra il 2021 e il 2024, l’occupazione in Sardegna è cresciuta di quasi 30mila unità e il tasso di disoccupazione è sceso all’8,3%, il livello più basso degli ultimi cinquant’anni. Tuttavia, la qualità di questa crescita è limitata: il 58% dei nuovi posti di lavoro è stagionale, una delle percentuali più alte d’Italia (seconda solo alla Valle d’Aosta), e si concentra in settori a basso valore aggiunto come turismo, agricoltura e servizi a bassa intensità di conoscenza.

La Sardegna sconta anche un grave problema demografico. Negli ultimi dieci anni, la popolazione in età lavorativa (20–64 anni) è diminuita di 118mila persone, con una flessione ancora più marcata nella fascia 20–34 anni (-22,3%, contro una media nazionale del -4,6%). Le proiezioni indicano una perdita di ulteriori 122mila unità nei prossimi dieci anni. In assenza di correttivi, ciò potrebbe portare a una riduzione di 76mila occupati e a un calo del 6,5% del reddito pro-capite reale.

In questo contesto, 1 giovane su 5 (20%) laureato negli atenei sardi lascia l’isola entro 5 anni dal conseguimento del titolo, mentre il tasso di abbandono scolastico precoce (17,3%) è il più alto d’Italia e quasi il doppio della soglia UE fissata per il 2030.

Sul piano della produttività, la Sardegna resta indietro: con appena 33 euro di valore aggiunto per ora lavorata, si colloca al quart’ultimo posto in Italia, lontana dai 47 euro della Lombardia o i 40 euro della media nazionale. Ben l’81% delle ore lavorate si concentra in settori con produttività inferiore alla media, un dato peggiore solo della Calabria.

Secondo lo studio, un funzionamento “ottimale” del sistema produttivo regionale, in linea con le regioni più efficienti, potrebbe generare fino a 9 miliardi di euro in più di Pil, equivalenti a un incremento del 25% del valore aggiunto.

Lo studio analizza anche gli effetti potenziali dell’adozione dell’intelligenza artificiale. In una prima fase, si prevede un impatto negativo sul saldo occupazionale, con una possibile perdita netta di 60mila posti di lavoro (il 10% degli occupati attuali), a causa dell’automazione in settori fragili e poco digitalizzati. Tuttavia, la piena implementazione dell’IA potrebbe far crescere il valore aggiunto regionale del 12,8%, pari a circa 5 miliardi di euro, offrendo nuove opportunità, a condizione che si investa in formazione, capitale umano e modernizzazione dei processi.

“Un’analisi del mercato del lavoro che vada oltre la positività che è possibile cogliere dall’incremento occupazionale dell’ultimo triennio, quasi tutto concentrato su settori a basso valore aggiunto” sintetizzano Luigi Tomasi e Francesco Porcu, rispettivamente presidente e segretario regionale di Cna Sardegna. “Se analizziamo la struttura del mercato, in termini di precarietà, disoccupazione, contratti a termine, part time involontario, stagionalità, produttività e la qualità del capitale umano, elementi di grande preoccupazione”.

“Il lavoro non si crea per decreto, ma investendo sulle persone” aggiungono. “Occorre uscire dall’emergenza dei bonus temporanei, dagli incentivi a pioggia. Serve un investimento
strutturale su tutta la filiera dell’istruzione, dalla scuola alla formazione professionale; occorre promuovere un “lavoro” vicino alle comunità che tenga conto delle vocazioni dei territori, che promuova le filiere locali, che scommetta su innovazione sostenibile e di prossimità”.

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