Un anno dopo, siamo ancora orfani di Gigi Riva. La mancanza si sente. Forte. Intensa. Parlarne è un buon antidoto per tenere vivo, abbracciato con noi il ricordo.
Ho provato a farlo con Paolo Piras: formidabile giornalista (Rai News) e altrettanto piacevole scrittore, ha raccontato, andando a scavare in fondo una storia epica, la parabola umana di Rombo di Tuono.
Il tuo primo contatto con Gigi Riva.
Sono nato nel 1970. Come si dice in questi casi: nascere nel 70 quando sei tifoso del Cagliari è come arrivare a una festa quando hanno già sparecchiato. Del tifo rossoblù ho conosciuto il doversi adattare in modo dignitoso e anche auto-ironico alla sconfitta. Piuttosto che godersi la vittoria. La prima partita che ho visto a 5 anni è stata Cagliari-Cesena, in cui segnò Riva. Il primo gol che ho visto in un campo da calcio è stato il suo. Sta di fatto che la partita venne vinta dal Cesena 1-2. Non era la Juventus, ma il Cesena. E questo dava una idea della situazione che stava verificandosi. Qualche partita dopo Riva ebbe l’infortunio decisivo, che lo fece smettere.
Cosa ha rappresentato per te?
Riva è stato per me quello che è stato per tutti. Gli abbiamo dato un carico gravoso: esprimere, lui lombardo, una identità che è nostra o che vorremmo essere nostra. Una identità di verticalità, di dignità, capacità di accettare la vittoria e la sconfitta con lo stesso stile. Ed è interessante che, il giorno in cui Riva se n’è andato, io abbia ricevuto almeno 14 messaggi di condoglianze. Come fosse un mio parente. Alla fine questi messaggi non erano così sbagliati da parte dei miei amici continentali. Era qualcosa che ho sentito come un lutto da elaborare.
E come lo hai elaborato?
Il giorno in cui è morto Riva sono stato chiamato in studio su Rai News per parlare di lui. E anche quello è servito per elaborare. Poi 66th mi ha chiesto se avevo voglia di scrivere un libro su di lui e ho detto di no. Loro hanno insistito. Io mi sono guardato intorno cercando di capire se avevo qualcosa da dire sulla vita di Riva. Ed è venuto nel mentre che leggevo, studiavo, incontravo persone. Tanti mi hanno fatto dono di altre storie su di lui e sono usciti fuori più livelli di storia.
Cosa è uscito fuori da quei racconti, a tal punto da diventare un libro (“Vertical. Il romanzo di Gigi Riva”)?
C’era lo scintillante trionfo sportivo e una parabola umana che ha avuto i suoi momenti bui. Una ricerca d’identità, dopo che una parte importante gli era stata sradicata con la desertificazione affettiva dei primi lutti. Tutto ha contribuito alla ricerca di una appartenenza nuova. L’appartenenza gliel’ha data la Sardegna con due diverse angolazioni: da una parte l’isola lo ha adottato come un figlio d’anima, per affinità; dall’altra parte gli ha chiesto di trasfigurarsi, diventare eroe. Non nel senso di vincente, che è una parola scivolosa. Riva non ha mai pensato di accumulare trofei per issarvicisi sopra e guardarci dall’alto al basso come eroe sportivo di quel tipo. Anzi il suo eroismo è stato quello di aver accettato le sorti del Cagliari anche quando sapeva che questo avrebbe comportato l’essere sconfitto. Accettare il rischio della sconfitta è molto più eroico che andarsi a cercare una via in discesa verso la vittoria. E lui l’avrebbe potuta trovare, con una maggiore soddisfazione economica.
Riva ha anche trovato rispetto e stima nel rapporto coi sardi. Nessuno ha pensato di disturbarlo oltre il dovuto. Questo è stata la chiave del successo di quel rapporto?
Sì, i sardi hanno in comune con Riva il fatto di amare, essere amati, ed essere lasciati in pace. Questo è uno dei motivi per cui ha scelto di condividere il mistero dell’identità sarda.
Gigi Riva è stato raccontato molte volte. Ma c’è qualcosa che non sappiamo ancora?
Credo che quando tu finisci in un collegio, hai 6/7 anni, e scappi da questo collegio e poi ci ritorni, e sei costretto ad accettare la carità come unica chance. In un carcere per bambini poveri. Quando capisci che il mondo può fare a meno di te, questa cosa ti segna nel profondo. Riva ha capito abbastanza rapidamente di avere un talento. Ma ha avuto la fortuna di capitare nel microclima del calcio di quel tempo, nel quale il talento si poteva sviluppare in purezza senza compromessi. Non c’è niente di più serio in Italia di un gioco, con delle regole. Il suo talento era indiscusso, è potuto rimanere bambino insieme al suo gioco preferito. E questo gli ha consentito di passare in maniera luminosa e coerente il suo percorso di uomo in purezza. Dico ad un certo punto nel libro che l’epica crea gli eroi e la realtà li sciupa. Riva ha cercato di non essere sciupato dalla realtà.
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