Domenico Iannacone si definisce un cantastorie. Quando lo fa, gli si illuminano gli occhi e il sorriso si apre. Come se rivedesse davanti a sé tutte le narrazioni di questi anni, anche quelle più drammatiche. La soddisfazione è quella di renderle note, di renderle “sentite”, di tutti. Senza distinzioni.

Ecco perché definirlo giornalista appare quasi riduttivo. Anche se la sua grandezza non è solo fisica, ma anche umana. Domenico Iannacone parla con tutti, ascolta le storie, empatizza, si concede a foto e autografi. Sta portando per lo stivale “Che ci faccio qui”, il programma televisivo Rai che nei teatri sta assumendo uno sviluppo e una maturazione differente, mantenendone intatto il valore.

In Sardegna, nella cornice del Festival dell’Altrove di Guasila, Domenico Iannacone ha avuto modo di dialogare con Maria Fois Maglione, anima de Il Giardino di Lu. Una nuova storia, altri vagoni da aggiungere ad un treno che da oltre dieci anni corre attraverso i territori di tutta l’Italia.

“Che ci faccio qui” prosegue a teatro. Com’è portare le storie altrove rispetto alla tv?

Sto continuando la mia attività di giornalista ma soprattutto di cantastorie. Un mio amico, Andrea Camilleri, mi diceva sempre: c’è una capacità orale di tenere le storie vive, sempre accese. E questo mi è rimasto dentro come messaggio. Le mie storie sono vive perché ho attraversato luoghi, incontrato persone, ho avuto quasi la possibilità di entrare nelle vite degli altri. Questo è un privilegio. Mantiene accese le storie nella loro verità. E quindi sono sempre bellissime da raccontare.

Il passaggio dalla tv al teatro invece com’è stato?

L’idea di aver riportato le mie storie a livello di rappresentazione teatrale è stata una necessità. Legata a un fermo forzato della Rai nei miei confronti. Che però mi ha consentito di fare un lavoro di mantenimento e di conservazione del progetto televisivo. Che ora si è sviluppato. L’idea di raccontare le storie in teatro mi ha permesso di mettermi a nudo completamente. Sono io sul palco che racconto storie che qualcuno magari ha visto in televisione ma che vengono rappresentate da un altro punto di vista. Per esempio usando la parola, che io utilizzo pochissimo, è quasi rarefatta nel prodotto televisivo. E poi c’è la possibilità di raccontare dei sensi che in televisione non posso. Ad esempio gli odori. Potrei raccontare un microcosmo di storie attraverso gli odori. E questo è un privilegio assoluto.

Oggi il mondo delle inchieste è cambiato. Sono nati i podcast, ci sono altre forme di veicolo delle storie. Si possono portare le storie all’attenzione delle persone anche al di là della tv?

Io credo che la tv stia vivendo una fase di arretramento strutturale legato al pubblico che si sta lentamente riducendo. E in qualche modo anche perché sembra che non recepisca le istanze di una platea di persone, che magari vogliono sentire delle cose. Si sta creando una narrazione molto omogenea, e questo non va bene. Altre forme di comunicazione permettono di raccontare le cose con maggiore velocità e puntualità. Guardando le cose anche in maniera meno formale. La tv è rimasta molto formale. Questo è un grave problema per il futuro.

C’è un programma televisivo, penso a Propaganda Live, che cerca di fare inchieste in un modo totalmente differente. Ritieni che sia un servizio funzionale alle piccole e grandi storie d’Italia?

Diego (Bianchi) utilizza un meccanismo consolidato. Non credo che tra il suo modello e quello che utilizzo io, molto più cinematografico, ci sia una differenza. L’importante è mantenere il materiale di fondo, cioè tenere viva la storia. Poi se la racconti con un formalismo nell’immagine o con qualcosa di più leggero, non importa. Importa che la storia non abbia contaminazioni. Quando la storia è incontaminata, vuol dire che hai fatto il tuo lavoro di giornalista.

Dal punto di vista umano, le storie cosa lasciano?

Avendo raccontato molto in questi anni, è come se ad un certo punto fossi diventato una locomotiva che aggiunge vagoni ogni volta. Quindi il carico emotivo a volte diventa pesante. È chiaro però che dentro le storie c’è un arricchimento personale. È come se bilanciassi quello che ricevo con quello che do. Mi permette di mantenere una specie di curiosità verso gli altri, di raccontare le storie seguendo dei percorsi inusuali. Mi piacciono le storie minime, quelle che non sono eclatanti, che si incontrano magari per strada o che bisogna andare a cercarle col lanternino. Lì secondo me c’è il reagente morale che rende una storia bellissima.

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