Il cantante Sangiovanni ha portato al termine il Festival di Sanremo 2024, poi ha chiuso (per ora) con la musica. “A volte bisogna avere il coraggio di fermarsi. Non riesco più a fingere che vada tutto bene e che sia felice di quello che sto facendo” ha dichiarato.
Il cantante ha annunciato dunque la volontà di fermarsi per prendersi cura della sua salute fisica e mentale. In particolare dopo il penultimo posto a Sanremo.
Con la psicologa psicoterapeuta Milena Martini abbiamo provato a capire meglio come il successo ottenuto dai giovani rischi di creare delle aspettative che gli stessi non sono in grado di mantenere.
Cosa è successo a Sangiovanni?
Durante il corso di psicologia sociale dell’Università, il professore ci fece svolgere un compito dal titolo “Quanto di me sono io?”. Prima di cercare una risposta alla domanda, bisogna partire dal concetto di psicoterapia: il vocabolario Treccani definisce questo termine come “Ogni forma d’intervento terapeutico nei confronti di disturbi mentali, emotivi e comportamentali, impostato e condotto a termine con tecniche psicologiche (alle quali può aggiungersi il complemento farmacologico), ispirato a principi e metodi diversi, con il fine di migliorare l’adattamento dei pazienti all’esistenza e alla realtà circoscrivendo cause e natura di disadattamenti, conflitti, situazioni critiche (…)”. A me piace parlare di un percorso che insegna a prenderci cura di noi e soprattutto che ci permette di prendere consapevolezza del modo in cui funzioniamo, del significato che certi eventi hanno per noi o hanno avuto per noi, di alcune nostre reazioni e del condizionamento che le relazioni con gli altri hanno su di noi.
Quanto è importante la percezione che si ha di sé?
Il concetto di “Sé” si riferisce alla percezione generale che ciascuno ha di se stesso e delle sue dimensioni fisiche, psicologiche e sociali. Esso si forma in relazione alle diverse esperienze che viviamo, quindi cambia nel tempo e in rapporto all’ambiente fisico e sociale. Un altro fattore importante nella formazione del Sé e quindi dell’immagine che abbiamo di noi, è rappresentato dai successi, che ci permettono di percepire noi stessi come capaci di affrontare le situazioni problematiche. Nell’immaginario collettivo, chi lavora nel mondo dello spettacolo, del cinema e dello sport, chi ha successo inteso come un riconoscimento del “grande pubblico”, ha una solida coscienza e consapevolezza del proprio valore. Invece spesso accade che quando per queste persone viene meno il senso di grandiosità, quando “non si sentono al massimo”, quando hanno la sensazione di non corrispondere all’immagine ideale che hanno costruito di se stessi, di averla tradita, emerge un forte senso di vuoto e di depressione. Possono sorgere anche sensi di colpa, angoscia e vergogna.
Alice Miller nel libro “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé”, scrive “L’individuo grandioso non è mai realmente libero perché dipende continuamente dall’ammirazione degli altri e perché quell’ammirazione si basa su qualità, funzioni e prestazioni che all’improvviso possono scomparire”. Avere successo per una persona significa “essere sempre sul pezzo”, apparire all’altezza delle aspettative, identificarsi con l’immagine che il pubblico e/o le case di produzione hanno creato e vogliono per lei.
L’adattamento dei suoi bisogni in funzione di quelli degli altri la porta a sviluppare quello che Winnicott ha definito “falso Sé”: non può mostrare il suo vero Sé, non può ascoltare e manifestare le sue reali emozioni, i suoi reali bisogni e desideri. Questa mancata integrazione tra falso Sé e vero Sé determina un vuoto reale che si tramuta in un senso di assurdo e provoca l’assenza dell’elemento vitale. Da qui la domanda “Quanto di me sono io?”.
Un’altra conseguenza può essere anche quella di domandarsi se l’Altro apprezzi e ricerchi il rapporto con il personaggio (falso Sé) o con la persona (vero Sé).
Cosa rappresenta vivere il dolore davanti all’insuccesso?
Vivere il dolore di fronte all’insuccesso o alla stanchezza rappresenta il primo accesso emotivo al vero Sé e la libertà di vivere le emozioni che emergono in modo del tutto spontaneo, sia quelle che fanno stare bene e sono socialmente accettate, come ad esempio felicità e meraviglia, sia quelle che creano sofferenza e non sono socialmente accettate, come ad esempio tristezza e rabbia. In una società che ancora ci invita a non mostrare le nostre sofferenze e la nostra stanchezza, in quanto segni di fragilità, un artista che decide di sospendere l’attività lavorativa per prendersi cura di sé, rappresenta un importante esempio per ciascuno di noi e diventa il portatore del sintomo, l’elemento sensibile e fragile che si carica di un bisogno non espresso, ma collettivo.
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