Nuova polemica a Sanremo per un testo cantato in dialetto.

Questa volta è il caso di Geolier, rapper napoletano arrivato primo in classifica nella seconda puntata della kermesse musicale, che quest’anno ha presentato un brano (“Io pe’ me, tu pe’ te”) cantato interamente in “lingua originale”.

Tanti i commenti che ribadiscono il fatto che il Festival dovrebbe rappresentare la musica italiana, e dunque i testi andrebbero scritti in italiano standard. Ma la polemica non è nuova, e nel calderone del pubblico contrario alle performance in dialetto finirono anche i Tazenda. 

Era il 1992 e la band sarda, per il secondo anno consecutivo al Festival di Sanremo, presenta il brano “Pitzinnos in sa gherra” (“Bambini nella guerra”), scritto e cantato interamente in sardo, a parte la filastrocca finale scritta da Fabrizio De Andrè, il quale collabora con i Tazenda perfino nel pezzo “’Etta abba, chelu”.

Anni dopo, nel 2002, è la volta di Nino D’Angelo, che aveva cantato “Marì”, con parti in italiano e altre in dialetto: “Marì cchiù bella ‘e te, Cchiù grande ‘e te, Nunn’ è nisciuno”. Successivamente, nel 2010, sempre D’Angelo presentò “Jammo jà”, interamente in napoletano.

Più di recente, nel 2014 Rocco Hunt ha portato a Sanremo “Nu juorno buono”, con parti intere in napoletano.

La questione, però, era già stata risolta tempo fa citando lo stesso regolamento del Festival. “Il testo delle canzoni in gara dovrà essere in lingua italiana”, si legge nel documento, ma “si considera in lingua italiana – continua il regolamento -, anche il testo che contenga parole e/o locuzioni e/o brevi frasi in lingua dialettale e/o straniera (o di neo-idiomi o locuzioni verbali non aventi alcun significato letterale/linguistico), purché tali da non snaturarne il complessivo carattere italiano, sulla base delle valutazioni artistiche/editoriali del direttore artistico”.

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