(Foto credit: Sogaer)

Sempre più giovani sardi decidono di studiare fuori dall’Isola.

Un’emorragia di cervelli, quella attestata drammaticamente dall’ultimo dossier del Centro studi della Cna Sardegna, che penalizza ulteriormente la crescita socioeconomica della nostra regione, caratterizzata da un mercato del lavoro che fa scappare i ragazzi e non li incentiva a studiare e formarsi con l’idea di rimanere nell’isola.

Secondo il report dell’associazione artigiana,il numero dei giovani sardi che studiano negli atenei isolani è passato dai 47.464 dell’anno accademico 2010/2011 ai 35.842 del 2021/2022 (11.622 studenti in meno). È invece cresciuto il numero di residenti iscritti in università di altre regioni: da 6.040 a 7.184 (1.144 studenti in più).

La drammaticità di questo dato è spiegata con il fatto che per la maggior parte dei ragazzi recarsi a studiare fuori dall’Isola rappresenta quasi sempre il primo passo per un trasferimento definitivo dopo l’ottenimento del titolo accademico: una rilevante perdita di risorse umane qualificate, dopo gli ingenti sforzi effettuati dalle famiglie sarde nel sostenere lo studente nel percorso di studi.

“I giovani laureati devono essere valorizzati – commentano Luigi Tomasi e Francesco Porcu, rispettivamente presidente e segretario regionale della Cna Sardegna -. Condurre una esperienza di studi fuori dall’Isola non è necessariamente un fattore negativo, ma a patto che sul fronte interno si lavori per creare le condizioni propizie per favorire il rientro, valorizzando nel tessuto produttivo locale l’esperienza specialistica acquisita fuori. Al contempo, favorire lo sviluppo e l’ampliamento dell’offerta universitaria locale costituisce un fattore altrettanto strategico, sia per ridurre la fuoriuscita di giovani verso altre regioni, una risorsa sempre più limitata, sia per attrarre studenti da altre regioni. Si tratta di temi centrali che andrebbero posti in cima all’agenda politica, in gioco c’è il futuro della Sardegna e della sua economia”.

L’analisi di Cna Sardegna

In base ai dati del MIUR (Ministero dell’Università e della Ricerca), con riferimento all’anno accademico 2021/2022, dei 43.026 studenti universitari residenti in Sardegna il 16,7% studiava in atenei situati in altre regioni: una percentuale in costante crescita, visto che nell’anno accademico 2010/2011 gli studenti fuori sede erano l’11,3%.

L’invecchiamento della popolazione

Il fenomeno dell’emigrazione studentesca, evidenzia il report, si innesta in uno scenario generale che, a causa del processo di invecchiamento della popolazione, vede un vistoso assottigliamento della fascia giovanile: nell’Isola la popolazione in età da università – la fascia 19-24 anni – passa infatti dalle 104.737 dell’anno 2010/2011, alle 83.021 del 2021/2022, quasi 22mila residenti in meno in 21 anni (-20,7%).

Questo significa che il calo della popolazione studentesca avrebbe potuto essere anche maggiore se a partire dal 2016/2017 la percentuale dei residenti di quella fascia impegnata negli studi non fosse progressivamente aumentata fino a superare la soglia del 50%.

Gli atenei sardi poco attrattivi

Ma non solo. Osservando nel dettaglio gli atenei sardi, sebbene in aumento, l’attrattività verso studenti provenienti da altre regioni italiane resta esigua: si passa dai 210 studenti residenti in altre regioni dell’anno accademico 2010/2011 (appena lo 0,4% del totale), ai 731 dell’anno 2021/2022 (2% del totale degli iscritti).

Il mercato del lavoro non adatto per i laureati

Per comprendere appieno il fenomeno va detto che il mercato del lavoro sardo non è particolarmente incline a favorire l’inserimento occupazionale dei giovani laureati. Sullo stock complessivo della popolazione residente occupata, solo il 22,1% risulta in possesso di un titolo di studio accademico, un valore assai basso, inferiore alla media nazionale (24,3%), ma soprattutto a quello di altri paesi europei, tra cui Francia (45,7%) e Spagna (46,4%).

Inoltre, la scarsa propensione delle imprese sarde all’adozione di nuove tecnologie e a fornire aggiornamento continuo ai dipendenti riduce la domanda di lavoratori più qualificati, mentre la specializzazione del tessuto produttivo verso settori tradizionali a bassa intensità tecnologica limita gli incentivi per i più giovani a investire sulla propria formazione, special modo universitaria.

La diffusione di contratti atipici e stagionali

Ma il problema non è solo qualitativo: nell’Isola, la diffusione di contratti atipici e stagionali comporta una minore spinta alla formazione professionale in azienda e a un minore incentivo, per la forza lavoro, a investire sulla propria istruzione. Inoltre, una certa polarizzazione del mercato del lavoro sfavorisce i più giovani, ovvero, la componente più dinamica e innovativa della popolazione.

Il risultato è che nell’ultimo quadriennio il tasso di disoccupazione giovanile (25-34 anni) in Sardegna è stato pari al 20%, contro il 14% nazionale, il 7,9% del Nord e il 12,4% del Centro. Ancora più preoccupante è il dato sui cosiddetti NEET, ovvero giovani che non lavorano, non cercano e non studiano, che, nello stesso periodo, ha riguardato oltre un quarto dei ragazzi tra 15 e 29 anni, contro il 22% medio nazionale, il 16,6% delle regioni del Nord e il 18,5% di quelle del Centro.

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