A Londra è spuntato il sole, Francesca Floris guarda fuori dalla finestra e abbozza un sorriso. È possibile che stia pensando di scattare una foto, una delle sue, di quelle belle che popolano i social, le mostre, i film.

I suoi lavori sono dei piccoli (ma grandi) gioielli, istantanee che entrano in contatto con l’anima delle persone. Lei, partita da Oristano, oggi si ritrova a soli 31 anni a vantare tante ed importanti esperienze.

Ha studiato in Italia, in Gran Bretagna, negli Usa. Ha viaggiato, imparato. Si è laureata. Ha fondato una agenzia, la Flora’s Room. Ha lavorato come produttrice VFX al film “Comandante“, di recente al Festival del Cinema di Venezia.

E in questa intervista Francesca si racconta, ci racconta. Aneddoti, amicizie, esperienze diverse.

Quando inizia la passione per la fotografia e quale percorso ha fatto per arrivarci?

È successo per caso. Ho tenuto la macchina fotografica in mano per anni nel mio lavoro prima di rendermi conto che era un modo in cui riuscivo a esprimermi come artista, e non solo un supporto tecnico o qualcosa che apparteneva agli altri. In realtà c’è stato un momento che penso abbia sancito l’inizio del mio rapporto con la fotografia. Stavo seguendo un progetto su Gramsci per una classe del liceo guidata da mia zia, e ho chiesto in prestito a un amico una Canon con un obbiettivo analogico Olympus. A lui piaceva così. L’ho aperta per la prima volta dentro casa Gramsci e inquadrato un portafiammiferi. Mi è sembrato il portafiammiferi più bello della storia dei portafiammiferi. Da lì ho voluto inquadrare tutto con quell’obbiettivo. Ho comprato una macchina simile e un obbiettivo uguale e ho intitolato la mia prima mostra Olympus 50 in suo onore. Ho iniziato il CSC dopo un mese da quell’esperienza a Ghilarza e gli amici che ho conosciuto lì sono stati fondamentali per la mia crescita come fotografa. La scenografa Myriam Sansone, il DoP Jacopo Cottarelli, i docenti Emilio Loffredo, Beppe Lanci e Flavio De Bernardinis e tutta la classe di fotografia del mio triennio mi hanno accompagnato nei progetti e aiutato a crescere.

Cosa la cattura di più quando scatta una foto? 

La cosa che mi cattura di più sono senza dubbio le persone. Non credo che sarei in grado di fare delle foto che abbiano un senso senza includere delle persone, anche se di recente mi sono appassionata di architetture. La mia priorità restano le donne. Per me c’è qualcosa che va oltre, quando si tratta di loro. Non esiste niente di più complesso e interessante. La donna è l’inizio e la fine di tutto. Per quanto riguarda le storie, ho una forte predisposizione per la stage photography. Quindi la fotografia in studio, che parta da una storia più o meno breve, più o meno complessa. Solitamente sono storie che scrivo io e poi traduco in un tot di immagini che vadano a rappresentarne i momenti salienti, solitamente una decina di immagini. Quasi come uno storyboard. Un buon esempio è il mio progetto Il palco bianco, o L’ultimo amore di Las, o anche il progetto Strike, un’installazione fotografica che con due colleghi abbiamo portato in giro per Roma per denunciare l’emergenza rifiuti nel 2019.

Quando si parla di talenti sardi, si dice che ci sia una difficoltà ulteriore nel raggiungimento del successo. È più difficile per una sarda farsi largo in un mondo come questo?

Penso che il fatto di essere nata in un’isola mi abbia incentivato da quando ero piccola a viaggiare, che fosse per evadere o per allargare gli orizzonti. La mia scuola aveva degli ottimi programmi di scambio e degli insegnanti molto dediti a queste iniziative (ricordo, per esempio, Andrea Blasina al Liceo Azuni, che ci portò per la prima volta a fare la stagione in Irlanda quando avevamo solo sedici anni). Penso che vari molto da persona a persona, io sono stata fortunata. Ma in generale i sardi hanno orizzonti molto ampi, e allo stesso tempo un forte legame con la propria terra. C’è da dire che è difficile rimanere in contatto. Non siamo abbastanza agevolati, né dalla continuità territoriale né dai collegamenti. Servirebbe più sensibilizzazione verso le iniziative a disposizione dei giovani, e più persone investite nel portarle avanti.

Tra le protagoniste delle sue foto ci sono diverse attrici: com’è lavorare sul set e com’è stato lavorare con loro?

Il lavoro sul set è intenso e adrenalinico. Ogni volta è un’avventura diversa. Si imparano tante cose, specialmente sulle vite degli altri, e ci si porta molto allo stremo sia a livello mentale che fisico. È il non plus ultra del mix letale tra arte e lavoro. Sai che stai lavorando ma sei così fortemente coinvolto e innamorato di ciò che fai che lo porti allo stremo e ti dimentichi a volte che sono necessarie delle pause. Le persone con cui fai il viaggio fanno la differenza. Praticamente tutte le attrici che ho ritratto sono persone che ho conosciuto durante i miei anni sui set a Roma e al Centro Sperimentale. Quello che mi ha ispirato è stata la loro bellezza, il loro fascino, e il modo in cui si sposa con l’idea astratta che ho sempre avuto dell’amore. Ognuna di loro ha rappresentato una storia diversa che avevo letto o in cui mi ero immersa, da Calvino a Dostoevskij, da Marguerite Duras a Buzzati. Fino ad Anna Manuelli, che è stata parte del progetto L’ultimo amore di Las, la prima storia scritta effettivamente da me e un progetto che è stato presentato per la prima volta a Brera nel 2019.

Dall’altro lato, cosa piace di lei alle persone? Ci sono degli aneddoti riguardo il suo lavoro? 

Ho lavorato principalmente con performer, quindi spero che quello che loro abbiano tratto dall’essersi affidati sia stata una buona sfida e la possibilità di mettersi alla prova insieme a me. Ho raramente fotografato persone che non fossero già abituate e a proprio agio davanti alla macchina fotografica. Quando è accaduto, è sempre stata una sfida anche per me, perché io stessa mi espongo di più. Per me il processo di fotografare è molto delicato e personale, per questo non è il mio mestiere principale. Non sarei in grado di farlo a comando. Ci ho provato e non ci sono riuscita. Per me è un territorio di scoperta ed è una forma di terapia. Per questo sono molto grata alle persone che si sono messe a disposizione dei miei progetti, sia per la parte tecnico/artistica che come soggetti.

Un aneddoto? Riguarda una foto di una ragazza seduta con la bottiglia di birra appoggiata alla macchina d’epoca azzurra. Ci eravamo intrufolate in una proprietà privata. Capitava spesso che facessi queste cose. Era la casa di un artista a Roma e volevo a tutti i costi fare delle foto lì dentro. Il cortile apparteneva a diverse famiglie e una signora anziana un giorno si accorse e si avvicinò sul piede di guerra. Ho dovuto tirare fuori tutta la paraculaggine che ti insegnano nel mondo del cinema e mi sono inventata che volevo comprare un una delle opere dell’artista che viveva lì. Lei ci ha creduto, per fortuna, e mi ha dato il numero. Ma neanche dieci minuti dopo, quando è tornato il nipote, lo ha preso a urla per aver lasciato il cancello aperto. Poverino… non era manco colpa sua.

Un aneddoto meno divertente sicuramente è stata la mostra che ho inaugurato a Brera, ma che è stata rifiutata da un museo in Sardegna perché rappresentava una storia omosessuale. Mi è stato detto che avrebbero accettato di esporre solo se avessi cambiato la mia versione sul contenuto della storia. Quando ho scelto di non farlo, sono spariti nel nulla. Purtroppo queste cose succedono spesso e continuano a succedermi spesso, e sono una grande delusione.

Che rapporto ha con Maria Chiara Giannetta? Anche di recente si è mostrata grande fan dei suoi scatti..

Io e Maria Chiara siamo buone amiche. Ci siamo conosciute durante gli anni del Centro Sperimentale e lei è stata dall’inizio un sostegno enorme ai miei progetti. Lo è tutt’ora. È una persona d’oro e un’attrice di grande talento. Purtroppo con la distanza è diventato difficile vedersi ma sono grata di averla nella mia vita e di aver condiviso parte di quegli anni indimenticabili con lei.

Quali sono i suoi prossimi obiettivi?

Al momento sono molto concentrata sulla mia società, Flora’s Room. Si tratta di uno studio di animazione con cui sto portando avanti progetti di alto profilo con dei co-produttori internazionali. Stiamo lavorando su un film tratto dal libro per ragazzi “Miss Dicembre e il Clan di Luna,” scritto da Antonia Murgo per Bompiani e vincitore del Miglior Debutto al Premio Strega dell’anno scorso. Stiamo poi lavorando sul film “Un viaggio a Teulada” di Nicola Contini, la storia di una donna che emigrò dalla Sardegna all’apertura del poligono negli anni ‘50, e il suo incontro con una giovane siriana in Corsica (la contrapposizione fra le vittime che causano la “guerra per gioco” e la guerra vera). Un altro progetto che vorrei menzionare è la serie “Faulas” di Michela Anedda, una serie di storie per bambine narrate in sardo. Per quanto riguarda la fotografia, sto lavorando a un nuovo progetto ma ci vorranno almeno un paio d’anni perché veda la luce.

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