Con un David di Donatello per la miglior sceneggiatura non adattata per “La stoffa dei sogni” (2017), Gianfranco Cabiddu è tra i registi italiani più apprezzati del cinema contemporaneo.
Cagliaritano doc, si laurea al Dams di Bologna in etnomusicologia, per cui inizia ad entrare in contatto con i suoni che lo assorbono quotidianamente in città e non solo. Una passione che si porterà dietro anche nella sua carriera cinematografica, iniziata negli anni ottanta in qualità di tecnico del suono.
Dopo diverse collaborazioni con registi d’eccezione, come Eduardo De Filippo, presenta il suo primo lungometraggio, “Disamistade” (1988), al quale partecipano anche Massimo Dapporto e Maria Carta. Poi arrivano “Il figlio di Bakunin” (1997) dall’omonimo romanzo di Sergio Atzeni, e il documentario “Passaggi di tempo – Il viaggio di Sonos ‘e memoria” (2004). Nel mezzo tanti documentari sulla Sardegna.
È da qualche anno che non la vediamo più al cinema. Come ha trascorso questo tempo, magari con qualche nuovo progetto?
Sì l’ultimo film è del 2018, Il flauto magico di Piazza Vittorio, diretto insieme a Mario Tronco. Dopodiché ho lavorato negli anni della pandemia sia alla scrittura per il prossimo film che a un documentario, misto a fiction e ricostruzione, su Luigi Lai. Mancano solo le lavorazioni tecniche, spero di presentarlo già quest’anno. Poi sto ultimando con dei registi di Bologna un documentario su Sonos ‘e Memoria, nato nel ’94 a Berchidda. Con dei giovani studenti abbiamo filmato tutti i concerti del festival nel corso di venticinque anni. Ho fondato una sorta di archivio dove sono conservate un sacco di performance e atmosfere. Questo lavoro è stato finalmente digitalizzato ed entro l’anno dovrebbe essere presentato.
A proposito di memoria, Luigi Lai è un personaggio molto importante per la tradizione musicale sarda.
Assolutamente sì, è un grande artista e un maestro di vita. Un grande esempio anche per i giovani per la sua costanza nel voler fare il musicista a tutti i costi, partendo da un posto svantaggiato. Ci sono molto affezionato, è come se fosse mio padre. Lo conosco da tantissimi anni, l’ho voluto nel mio primo film.
Passiamo al Festival Creuza de Mà, di cui è direttore artistico, che si occupa della musica nel cinema. Un aspetto che è stato sempre tenuto un po’ in secondo piano.
Sì per fortuna negli ultimi anni c’è un po’ più di interesse per la musica applicata al cinema. Ma il cinema nasce proprio con la musica, perché anche i primi film muti erano accompagnati dalla musica dal vivo. Addirittura c’erano dei compositori che scrivevano delle partiture per ogni genere di film, erano una sorta di prontuari dove c’era il tema triste, il tema dei cowboy, il tema di guerra e così via. Poi il rapporto tra la musica e l’immagine in movimento si è evoluto, certamente, ma resta una parte fondamentale di un film, perché è qualcosa che non si può spiegare a parole, sono sensazioni. E maggiore è la sintonia tra regista e musicista, maggiore è il significato segreto di un film, che arriva nella sfera emotiva e percettiva dello spettatore.
Ora insegna questo aspetto così prezioso ai più giovani che vogliono intraprendere la sua carriera.
Sì insegnando al Centro Sperimentale mi sono reso conto che i giovani cineasti avevano un approccio più da compilation o da sonorizzazione dentro un film rispetto a un lavoro di condivisione con un giovane regista che faceva il loro stesso percorso e che quindi si dovevano incontrare sul piano dell’emozione. Il film si fa tutti insieme per cui questo tassello mancava. Ora abbiamo iniziato, prima solo con il festival insieme a Franco Piersanti ed Ennio Morricone che ci guardava da lontano, poi con il progetto Campus, dove facciamo incontrare queste diverse figure da tutta Italia e li accompagniamo nel corso di un anno: non hanno un solo maestro, ma ne hanno sette otto. Le loro musiche vengono a confrontarsi con tanti artisti diversi in modo che i ragazzi trovino la loro strada, che dev’essere unica.
Di recente ha detto che la Sardegna è terra di musicisti e compositori. Portare dei ragazzi da fuori qui da noi, con un’acustica del tutto diversa rispetto a quella che può esserci a Roma, che effetto fa?
È un aspetto molto interessante, perché il cinema è anche realtà. I rumori sono musica così come il respiro di una terra, i venti. Nelle punte più avanzate delle colonne sonore – penso soprattutto ai norvegesi che stanno vincendo tantissimi premi – partono dal suono della presa diretta reale del film per trovare suggestioni. Da questo punto di vista la Sardegna sarebbe una miniera.
Passando invece agli ultimi David di Donatello, tra i film in concorso per la miglior canzone originale c’era anche “Margini” con una base punk. Una sorta di revival di un genere musicale che sembrava sopito.
Sì a me è piaciuto molto. Mi ci sono anche ritrovato perché il punk è una musica che, per dirla alla cagliaritana, “mi fa svenare”. La storia è bellissima perché sono un gruppo di ragazzi di provincia che decide di organizzare un concerto di una band che loro amano e che conoscono solo in quella cerchia dell’hard punk e per farlo si mettono nei guai. Oltretutto tutte le musiche sono suonate dal vivo. È una musica viva, con tutti i difetti che può avere il punk, ma non è niente di preconfezionato per compiacere, è qualcosa di ruvido e diretto, travolgente.
Quest’anno ha fatto molto scalpore anche il film “Mixed by Erry”, che racconta di un caso di pirateria musicale nella Napoli degli anni ottanta. Lei che ricordi ha di quel periodo?
Be era molto diffusa come pratica. Si facevano le cassette con le canzoni preferite, che parlavano. Quelle musicassette erano dei messaggi, delle lettere. È una roba che per un periodo è stata la circolazione underground della musica. Uno aveva un disco, lo si prestava, poi si tirava fuori una canzone e si mixava. Anche in Inghilterra succedeva, a Napoli divenne una specie di industria. Erano playlist che avevano un’atmosfera.
Ha lavorato con musicisti come Nicola Piovani, Mauro Pagani e ha incontrato anche Ennio Morricone. Cosa ha colto della grandezza di questi compositori?
Aggiungerei anche Franco Piersanti, che è il musicista con cui ho lavorato più spesso. Tutti questi grandi nomi hanno una cosa in comune: sono umili e si sentono degli artigiani. Hanno una grande attenzione a far bene il lavoro che stanno facendo, senza pensare che quella cosa gli porterà un premio o successo. È un atteggiamento che ha radici antiche e porta molto lontano, perché quando una cosa è fatta con amore, sicuramente ha qualcosa di unico dentro. Non occhieggia niente che non sia qualcosa che parte da una situazione che si rifà a tutto quello che hanno imparato del passato. È la tradizione che fa un passo avanti.
Prima di diventare regista, si avvicina al cinema come tecnico del suono. Com’è cambiata la musica nel cinema in questi anni?
Sì prima ancora ho studiato flauto al Conservatorio di Cagliari, poi musica elettronica a quello di Bologna. Dopodiché mi sono laureato proprio a Bologna in etnomusicologia, quindi ho iniziato a lavorare registrando le musiche del territorio per poi analizzarle. Da lì in un momento particolare mi son dovuto ritrovare a fare il tecnico del suono per “campare” e così ho iniziato a lavorare per il cinema industriale, registrando il suono nei set, poi montandolo e seguendolo fino al mix finale. Possiamo dire che sono arrivato dalla parte del suono al cinema.
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