Tragedia nel carcere di Uta, dove un detenuto di 57 anni è stato trovato morto in una cella del Sai (Servizio assistenza intensiva).
Dolore e sgomento da parte dei familiari e degli operatori penitenziari.
“Questo episodio, i cui contorni saranno chiariti anche attraverso una eventuale perizia necroscopica disposta dal magistrato, richiama l’urgenza di una sanità penitenziaria adeguata ai bisogni di donne e uomini privati della libertà” afferma Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme .
Per Caligaris le ragioni sono da ricercarsi nell’assenza di “una vera e propria integrazione tra il reparto diagnostico terapeutico del carcere di Uta, strutturato e gestito da Asl e Areus, con quello degli analoghi reparti degli ospedali”.
“Il direttore sanitario della casa circondariale di Uta – spiega Caligaris – ha lo stesso grado di competenze e responsabilità di un collega dirigente ma per disporre un ricovero deve chiedere il permesso e così anche per un qualunque intervento chirurgico, a meno che il paziente-detenuto non sia in punto di morte. Per non parlare delle condizioni di vita di chi soffre di disturbi psichiatrici. Persone che, se non sono in isolamento, sostano nelle celle inermi con psicofarmaci”.
“Accompagnare un detenuto in un ospedale – continua Caligaris – richiede l’autorizzazione della magistratura di sorveglianza e/o di un giudice, necessità della disponibilità della scorta, condizionata dallo scarso numero di agenti. Il risultato è che le persone con necessità di controlli per patologie importanti rischiano di aggravarsi. Finora – conclude l’esponente di SDR – nonostante l’impegno dell’assessore regionale Carlo Doria non si è concretizzato neppure l’apertura di un reparto penitenziario ospedaliero”.
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