Volto noto del Tg1, Tiziana Ferrario è stata una delle principali anchorwoman della Rai fin dai primi anni ottanta.
Con una lunga carriera come inviata di politica estera, ha documentato crisi umanitarie e internazionali dall’Afghanistan in mano ai talebani al conflitto in Iraq, il Sud est asiatico, l’Africa tra il nord Uganda e il Darfur, fino agli Stati Uniti.
Il suo merito è stato riconosciuto anche dal Capo di Stato Carlo Azeglio Ciampi, che l’ha nominata Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana nel 2003 per il suo impegno civile e giornalista inviata in aree di guerra.
Nella serata di sabato 8 luglio è stata ospite della 12esima edizione del Festival LiberEvento in una location d’eccezione: la Tonnara Su Pranu di Portoscuso. Qui ha presentato di fronte a un pubblico eterogeneo il suo ultimo libro “La bambina di Odessa” (Chiarelettere, 2022), che è stato definito da più parti “una grande storia italiana”.
Partiamo dal tuo ultimo libro che racconta la storia di Lydia Franceschi, nata a Odessa da una famiglia antifascista e poi tornata in Italia dopo essere rimasta orfana di madre. Perché hai deciso di raccontarla?
Questa storia nasce dal mio desiderio di farla conoscere in tutta l’Italia. Lydia nasce sì ad Odessa ma ha vissuto soprattutto a Milano, che è stata la sua città. La sua è una storia tutta italiana. Mi son detta forse è il caso di raccontarla quando è venuta a mancare due anni fa. L’ho fatto anche sottoforma di romanzo proprio perché volevo che la sua storia arrivasse in mani diverse e infatti ho visto che è arrivata anche nelle scuole.
Cosa dovremmo ricordarci di questa donna?
La vita di Lydia è una vita che attraversa cento anni di storia italiana. Ha vissuto una vita intensissima, piena di dolore, ma ogni volta ha saputo rialzarsi ed è il motivo per cui ho pensato che fosse di grande esempio e ispirazione a tutte le età. Questo carattere ribelle che lei ha avuto sin da bambina, per esempio, piace molto ai ragazzi che sono anche molto incuriositi da un periodo storico che nessuno gli racconta, che è quello degli anni settanta. Mi chiedono moltissimo di quel periodo in cui i giovani erano tutti molto impegnati, su fronti contrapposti. Erano anni in cui ci sono state delle tragedie terribili, certamente, perché la voglia di cambiamento per alcuni è sfociata anche nella lotta armata. Ma sono stati anche anni che hanno portato tanti diritti: pensiamo ai lavoratori, la famiglia, le donne. Sono stati anni molto impegnati.
Gli stessi anni in cui morì il figlio di Lydia, Roberto, durante una manifestazione fuori dalla Bocconi, colpito alla nuca da un proiettile sparato dalle file della polizia.
Sì una storia che ha condizionato tutta la sua famiglia in questa battaglia alla ricerca della verità. Una verità che non arriverà mai e questo resterà sempre il suo cruccio. Perché sì è vero che riuscirà a far ammettere allo Stato che suo figlio è stato ucciso dalla polizia e con questa sua determinazione porterà un grande risarcimento [600 milioni di lire, ndr] e la nascita della Fondazione Franceschi, al quale vanno anche il ricavato del libro e i miei diritti. D’altra parte è interessante chiedersi se non ci fosse stata questa sua determinazione, il figlio avrebbe avuto giustizia?
È un po’ una storia che si ripete.
Sì l’abbiamo visto anche negli anni successivi: penso a Ilaria Cucchi e ai genitori di Giulio Regeni che stanno ancora aspettando di conoscere la verità. Credo che il dolore più grande che possa succedere a una madre è quello di sopravvivere al proprio figlio. Lydia passa la sua vita nel ricordo del figlio ma anche cercando di realizzare quella promessa che gli aveva fatto. Lei non voleva che suo figlio andasse ai funerali di Giuseppe Pinelli, perché c’era molta tensione in quei giorni a Milano, e lui la guarda e le dice: ‘Se mi dovesse succedere qualcosa, tu continuerai nella mia lotta’. Ed è quello che ha fatto. Ogni scelta l’ha fatta tenendo bene in bene anche la Costituzione, che era il suo punto di riferimento. Lei che aveva fatto la Resistenza, che era andata a votare per la prima volta orgogliosa, facendosi un vestito nuovo, aveva ben chiaro che qualunque cosa doveva esser fatta ispirandosi ai principi della Costituzione. Ma non solo, è stata anche un’insegnante e una preside, sapeva che la scuola doveva essere una scuola che desse a tutti le stesse opportunità, ha cercato anche con gli allievi più disagiati e con disabilità, di dare loro la possibilità di imparare.
Oggi invece sembra che si dia tutto per scontato, parlo della scuola pubblica.
Sì oggi noi abbiamo un ministero che si chiama dell’istruzione e del merito, ma il merito dipende molto dalle opportunità che hai avuto di dimostrare quanto vali. Perché nasciamo tutti con dei talenti diversi, ma alcuni hanno delle opportunità di dimostrarlo altri no. Lydia in questo senso fa delle scelte rivoluzionarie: apre la sua scuola agli operai. È una tra le prime presidi a farlo, quando viene varato il nuovo Statuto dei lavoratori con le 150 ore retribuite per studiare. In quegli anni Milano era una città dove erano arrivate migliaia di persone dal sud senza competenze, perché c’erano le catene di montaggio e non serviva mano d’opera specializzata, serviva gente da buttare dentro le fabbriche a fare sempre lo stesso movimento accanto alle macchine. Lei si rende conto che, facendogli prendere quella licenza media, stava dando loro un’opportunità.
Nel libro scrivi che “Odessa è un luogo speciale in cui nascere”. Perché?
È sempre stata un crocevia di culture, fin dalla sua fondazione. Qui un mondo ne incontrava un altro. E già dai primi anni della sua costruzione, alla quale contribuirono architetti italiani, si respirava aria italiana. La lingua parlata era proprio l’italiano insieme al russo. Ma oltre a questo Odessa era diventata un approdo per chi inseguiva il sogno bolscevico, prima che si trasformasse in un bagno di sangue. Mentre in Italia si consolidava il fascismo, nel resto d’Europa il nazismo, qui si viveva il comunismo. Più avanti, però, in questa città iniziò a dilagare la cultura del sospetto, per cui nessuno si fidava di nessuno. E anche la storia di Lydia, che nacque a Odessa in una famiglia antifascista, si confronta con questa situazione. Sua madre infatti morì poco dopo il parto, non si sa bene se per una puntura che gli fece un medico che nessuno aveva chiamato o perché era accaduto qualcosa prima del parto.
Non posso non farti un’ultima domanda sugli Esteri, di cui ti sei occupata a lungo. In particolare sui due volumi sulle donne all’epoca di Trump. Com’è la situazione oggi?
Per quanto riguarda il #MeToo, io credo che sia servito ad aumentare una consapevolezza. È un movimento che esplode durante l’anno di campagna elettorale di Trump, con la prima donna che si candida alla Casa Bianca, Hilary Clinton, e devo dire era stato un anno di grande violenza verbale, e non solo, nei suoi confronti. Vedevo che c’erano tante donne che si stavano organizzando, che si sentivano offese da quel linguaggio volgare e dai ricatti sessuali. È una situazione che è servita a rendere gli uomini più consapevoli dei rischi che correvano. In Italia tutto questo non è successo. C’è una differenza fondamentale tra i due Paesi: negli Stati Uniti queste denunce da parte delle donne sono state sempre supportate dai giornali, c’è stata una grande campagna dei grandi quotidiani che hanno indagato insieme alle donne. Una volta che avevano visto che le loro denunce erano reali e c’erano delle basi concrete di verifica, le hanno supportate. Qui invece tutto questo si è frantumato rapidamente: soltanto poco tempo fa delle ragazze hanno denunciato nel mondo della pubblicità, del cinema e così via, ma la stampa non è stata così compatta al fianco di queste donne. Finché non saranno gli uomini a isolare quegli uomini molestatori, violentatori, ricattatori, sarà molto difficile che le donne riescano da sole.
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