Occhi grandi azzurri e sguardo ipnotizzante. Quando arriva alla tavola rotonda con la stampa, sabato 24 giugno, in occasione della sesta edizione del Filming Italy Sardegna, Christopher Walken è esattamente come lo vedi nei film.
C’è chi lo ricorda nei panni di Nick nel “Cacciatore” (1978), con cui si aggiudicò il Premio Oscar come migliore attore non protagonista, chi invece adora l’interminabile monologo dell’orologio in “Pulp Fiction” (1994), e chi ancora aspetta di vederlo nel sequel di “Dune” (2023).
Una carriera lunga mezzo secolo, che l’attore hollywoodiano, 80 anni compiuti da poco, non sente ancora conclusa. “Ho avuto la fortuna di essere diretto da Steven Spielberg, un regista eccezionale – dice ai giornalisti presenti -, così come da Mike Nichols. Ho lavorato diverse volte con Abel Ferrara, che sento come un fratello. Ma ci sono anche tanti registi con i quali mi piacerebbe collaborare. Ad esempio non sono mai stato diretto da Martin Scorsese, ma ho sempre ammirato anche Bernardo Bertolucci e Sydney Pollack. Ce ne sono tanti bravi in giro”.
Gli ultimi Oscar? “Non li ho guardati”, confessa Walken. Ma c’è qualche regista giovane che lo ha impressionato? “Sì, mi piace David O’Russell”, autore newyorkese vincitore di due premi Bafta per “Il lato positivo” (2012) e “American Hustle” (2013) oltre a tre candidature ai Premi Oscar.
È un mondo in piena trasformazione, dice Walken, che ricorda con nostalgia i tempi in cui andava al cinema da ragazzo. “All’epoca – racconta l’attore – con mezzo dollaro potevi vedere due film, dieci cartoni animati e le notizie sportive. Potevi trascorre tre quattro ore in sala al buio. Tra l’altro, erano in pochi a potersi permettere l’aria condizionata a casa, quindi durante l’estate si andava al cinema solo per stare al fresco. Oggi – continua Walken – la situazione è completamente diversa: puoi guardare un film sullo smartphone o su una piattaforma streaming, cosa che personalmente non mi piace. Ci sono film molto apprezzati che non ho mai visto, anche perché non ho internet a casa, non possiedo nemmeno un cellulare”. “Quando vedo un film in televisione – spiega -, lo faccio attraverso il satellite, ma i film sono sempre gli stessi. È da tanto tempo che faccio parte dell’Academy, e fino a non molti anni fa mi mandavano i CD dei film in gara. Adesso non lo fanno più, perché si possono vedere in streaming, quindi la maggior parte mi sfugge”.
Nessuna critica a priori, ma c’è una cosa di cui Walken non si capacita: “Quando ho cominciato a fare l’attore – racconta -, un film poteva costare 10 milioni di dollari, che per l’epoca era una cifra astronomica. Ora, invece, mi capita di leggere che i blockbuster costano anche duecento, trecento, quattrocento milioni di dollari. Per certi versi è una buona cosa, ma con queste cifre si potrebbero fare molti più film su scala ridotta. Mi piacerebbe che non ci fosse così tanta differenza di budget fra quelli che chiamiamo i ‘tent-pole movies’, che sono cinecomic e film d’azione, e i film più piccoli”. “Forse – continua – ricorderete che ho recitato in un film intitolato I cancelli del cielo, che è diventato famoso per quanto è costato: 35 milioni di dollari, ma oggi non sono più una cifra esagerata”.
Poi si torna al film “Il Cacciatore”, diretto da Michael Cimino, con cui ha conquistato il premio più ambizioso, che qualcuno associa inevitabilmente all’attualità. “La guerra è una cosa terribile – dice Walken – e la guerra in Ucraina sembra particolarmente crudele per via di tutti quei civili, uomini, donne e bambini, che sono stati uccisi. Quando le persone nominano Il Cacciatore, dicono parla di questo, parla di quest’altro. Per me parla di giovani ragazzi che pensano alla guerra come un’avventura, un’impresa eroica, ma la realtà è che la guerra è un incubo, un massacro in cui ti esplodono letteralmente le gambe. Credo – conclude – che Il Cacciatore sia più di ogni altra cosa un film sull’idea sbagliata che si ha della guerra”.
E con Quentin Tarantino com’è andata? “Ho fatto due film con lui”, risponde. “Di solito le sceneggiature che scrive non sono proprio complete. Nel caso di Pulp Fiction – racconta Walken -, ho avuto il copione tre o quattro mesi prima dell’inizio delle riprese. Stavo lavorando anche ad altri film, quindi dedicavo circa un’ora al giorno al monologo, che era lungo 8 pagine! Lo studiavo giorno per giorno e, ogni volta che arrivavo alla fine, non riuscivo a smettere di ridere! Fortunatamente – continua – avevo tempo e sono riuscito a impararlo per bene, l’ho recitato l’ultimo giorno delle riprese”. “Quentin – prosegue l’attore – aveva girato tutto il film, gli altri attori erano andati a casa, ed eravamo rimasti soltanto io, lui, il bambino e la madre del bambino, che dovevano recitare in quella scena. Una volta arrivato sul set di mattina, cominciammo a girare, quando a un certo punto il bambino si era stufato. Così decidemmo di mandarlo a casa, anche perché io recitavo per lo più guardando la macchina da presa. Ci siamo rimessi a lavoro e verso l’ora di pranzo abbiamo concluso la scena”.
“Non è stato così difficile”, dice Walken. Del resto, spiega l’attore, “sono cresciuto nel mondo dello spettacolo”. E forse è proprio per questo che ha conservato quell’aria quasi imperscrutabile. “Una volta – racconta – un americano, mi ha detto: ‘Tu sei un attore straniero’ e io: ‘Che vuoi dire?’, e lui: ‘Nel senso che sembri provenire da un luogo diverso’. Io penso che abbia a che vedere con il fatto che sono cresciuto dentro al mondo del cinema, cosa che è accaduta a poche persone, e quindi in me c’è un che di strano, e so bene che il termine ‘strano’ può confondersi con la parola ‘sinistro’. Probabilmente è questa la ragione per cui vengo visto come un uomo ambiguo”.
Ma ora che se lo può permettere, con quali criteri sceglie i film Christopher Walken? “Be in realtà gli attori non scelgono i film – risponde -, ma in genere valutano solo quei lavori che gli propongono. Certo è molto importante avere un buon feeling con il regista che ti dirige, ma anche la location conta. Se oggi mi dicessero di andare a girare un film al Polo Nord, direi assolutamente no. Se mi proponessero una location come la Sardegna, direi certamente di sì”.
Leggi le altre notizie su www.cagliaripad.it