Michela Murgia torna a raccontarsi in una lunga intervista alla rivista di moda Vanity Fair.
Dopo aver rivelato, ormai un mese fa, di avere un tumore al quarto stadio e poco tempo da vivere, la scrittrice sarda è stata scelta per dirigere il numero speciale del settimanale diretto da Simone Marchetti, tutto incentrato sulle famiglie cosiddette “non tradizionali”.
Si parte dall’infanzia di Murgia, che rivela essere stata difficile per la presenza di un padre violento che non ha mai perdonato, anche perché, dice la scrittrice sarda, “non ha mai chiesto il perdono”.
Poi la fuga da casa al suo diciottesimo verso una nuova famiglia: quella dei suoi zii materni, che l’hanno cresciuta come “fill’e anima”.
È qui che Murgia sperimenta per la prima volta il concetto di “queerness”, che ha ampiamente spiegato in relazione alla sua fede cattolica nell’ultimo saggio “God save the queer” e di cui avevamo avuto modo di parlare in questa intervista.
C’è però un elemento tutto sardo nelle argomentazioni che Murgia presenta in quest’ultima intervista, e cioé l’associazione tra famiglia queer e nuraghi.
“In Sardegna ci sono 7.000 nuraghes – spiega la scrittrice -, torri di pietre diffuse come una specie di connessione neuronica. Sono costruite in modo che da una tu ne possa vedere almeno altre due, così che se uno non ti vede, almeno ti vede l’altro. Quando arrivavano le navi verso la costa, il nuraghe più vicino accendeva il fuoco in alto e dall’alto gli altri due potevano vedere nella notte il pericolo”.
“La storia dei nuraghes restituisce l’idea che due non basta – prosegue Murgia -. Io l’ho sperimentato molte volte nella vita. Il modello coppia regge finché non succede un vero casino: quando uno dei due si ammala, o va in depressione, o perde il posto, o ha una crisi l’altra persona deve reggere tutto il peso di questo squilibrio. A volte può farlo, altre no. E se non c’è nessuno vicino, non esiste la possibilità di trasferire il peso su più persone”.
“Responsabilità vuol dire questo – aggiunge la scrittrice -: la matrice latina è res-pondus, porto un peso, porto cose. Se tu hai tante cose pesanti, l’altra persona potrebbe non reggerle. Ho visto mariti fuggire davanti alla malattia delle mogli. Ho visto persone crollare davanti a una depressione, davanti a un padre anziano con l’Alzheimer, davanti a bambini con problemi. E spesso questa cosa ricade sulle donne, perché su di loro ricade il peso del Welfare e da loro ci si aspetta una quota di cura nelle relazioni superiore. La queer family è un modo di gestire meglio il peso di queste cose. Non dico che funzioni sempre. I conflitti e i casini succedono”.
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