A dieci anni dal suo debutto cinematografico, Lino Musella è tra gli attori italiani più apprezzati, anche grazie alla sua interpretazione nella fortunatissima serie tv “Gomorra”, in cui indossa i panni di Rosario Ercolano, detto o’Nano, braccio destro del camorrista Ciro di Marzio.
Una parte che gli ha permesso di farsi notare a livello internazionale, senza però restarne intrappolato.
Nel 2021 ottiene una candidatura ai David di Donatello come migliore attore non protagonista nel film “Favolacce” firmato dai fratelli D’Innocenzo, dopo una serie di collaborazioni con registi d’eccezione, tra i quali lo statunitense Terrence Malick e i nostrani Paolo Sorrentino, Pupi Avati, Mario Martone e Gianluca Iodice.
Un cinema d’autore, il suo, che nasce a teatro, nella sua città natale, Napoli, per poi spostarsi a Milano alla scuola Paolo Grassi dove studia regia teatrale. Da qui salirà sul palco per interpretare le opere dei più grandi drammaturghi europei – Shakespeare, Flaubert, Marlowe, Eliot – e italiani, come Eduardo De Filippo.
Oggi Lino Musella torna in scena insieme al collega Paolo Mazzarelli con “Brevi interviste con uomini schifosi”, pièce teatrale tratta dall’omonimo romanzo di David Foster Wallace e diretta dall’argentino Daniel Veronese. Nel tour anche una tappa al Teatro Massimo di Cagliari, organizzata da Cedac Teatro, in due serate che hanno conquistato il pubblico con tanti e forti applausi.
Partiamo dallo spettacolo tratto dalla raccolta di David Foster Wallace, che fu pubblicata nel ’99 ma che è di estrema attualità. Come ti sei immerso in questa pièce teatrale?
Possiamo dire che Wallace, da autore profondamente americano, ha creato un contegno di esseri umani anticipando alcune tematiche. Lui le viveva da uomo, ha uno sguardo interno e intestino che ho cercato di riportare sulla scena. Un autore come Wallace ha la capacità di farci perdere in quello che è l’immaginario delle nevrosi dell’uomo occidentale, che sono a mio avviso fuori dai generi e culturali.
In quest’opera però gli “uomini schifosi” indossano anche panni femminili: penso alla donna depressa che costringe al suicidio il suo analista.
Nello spettacolo il regista Daniel Veronese mette il teatro dentro una dinamica che rende possibile l’esposizione di alcune di queste interviste attraverso un gioco che lui ha inventato, molto più efficace nella resa scenica di quanto si possa avere sulla carta. Perché sulla carta noi abbiamo incontrato delle “imbeccate” maggiori del personaggio da parte della donna, ma quando poi si passa alla scena ci rendiamo conto di quanto anche queste figure femminili abbiano una parte, rendendo questi otto quadri non dei monologhi ma una sorta di dialoghi. E secondo me è questo aspetto che rende particolarmente vincente la trasposizione teatrale, perché in scena uno che dedica le cose a un altro, anche con violenza o manipolazione, mette l’altro in una zona centrale. Qui anche la donna è protagonista.
Quali sono i tratti della scrittura di Wallace che hai voluto esaltare nella recitazione?
Be soprattutto una montagna russa che lui fa compiere all’interno di certi testi, dandoti la sensazione di andare in una direzione, di salire, salire e salire, e poi di scendere precipitosamente in un solo secondo per passare a un altro tipo di sensazione. Alcuni di questi testi lo fanno internamente, ma è proprio la sua composizione drammaturgica che crea questa giostra. O meglio: ci sono alcuni testi che riescono a farlo all’interno, ma in realtà è proprio il passaggio da un quadro all’altro che ti crea questa vertigine. Magari un quadro che ti ha molto colpito da un punto di vista drammatico, poi ti ributta in una dimensione divertente, ironica, umoristica. Ricordo alcuni racconti, che sono intrisi di una dimensione profondamente acida, in cui poi improvvisamente arriva una colata di dolcezza. È un autore che lavorando sull’umano lavora su delle opposizioni, che sono anche contraddizioni.
Passando alla tua carriera da attore, puoi ormai vantare collaborazioni di altissimo livello come Sorrentino, Martone, i fratelli d’Innocenzo, Avati e Terrence Malick. Com’è stato lavorare con dei professionisti del genere?
Sono degli autori. Per quanto mi riguarda, a parte la bellezza del lavoro d’attore, c’è qualcosa anche da rubare se ti interessa essere anche autore, e nel mio caso interessa essere anche autore in teatro. Quindi oltre che delle questioni che riguardano squisitamente il cinema, essere su un grande set ti dà uno stimolo in più per lavorare in quel settore, ma in particolare io ho sempre cercato di guardare oltre, di “rubare” qualcosa. Quando potevo, mi interessava osservare quello che stavano facendo come registi e autori, quindi manipolatori della loro opera.
Tra i tuoi primissimi film c’è “Happy Days Motel” di Francesca Staasch, girato interamente in Sardegna. Che ricordi hai di quel road movie? Ci racconti qualche aneddoto?
Lo ricordo con molto piacere, è stato il mio primo set in cui ero stato scelto per fare un personaggio che aveva bisogno di un gioco trasformistico, qualcosa di strano. Io facevo il killer che arrivava alla fine, ed era un killer con la doppia personalità. La regista mi aveva chiamato per il provino, e più che una faccia serviva un attore che riuscisse a incarnare questo killer che ha due anime dentro. Io gli feci una proposta subito con una smorfia della faccia che raccontava un fratello e un’altra che ne raccontava un altro. Ci divertimmo molto.
Hai recitato anche nel film “La stoffa dei sogni” di Gianfranco Cabiddu.
Sì mi è capitato di tornare in Sardegna proprio con questo film qualche anno dopo. E mi son trovato in una dimensione dell’Isola ancora più speciale, perché l’Asinara è ancora un’altra cosa. Ha una sensazione pazzesca, da parte c’è un’energia naturale e animale fortissima, però ha anche un po’ di spettri. Il carcere di massima sicurezza per me rimane un luogo di massimo dolore. Al di là di qualsiasi tipo di responsabilità, sono luoghi in cui gli uomini scontano disumanamente quello che hanno fatto. Poi il discorso di giustizia e non giustizia è un’altra cosa, ma per me il 41bis è una forma di tortura, forse è un surrogato della condanna a morte. E spesso i surrogati sono peggiori degli originali.
A proposito di malavita, non posso non farti una domanda su “Gomorra”, dove hai interpretato Rosario Ercolano, il braccio destro di Ciro Di Marzio. A distanza di nove anni dalla prima puntata, come viene recepita oggi dal pubblico?
Sì a un certo punto tutta l’Italia guardava solo “Gomorra” e a me non poteva che far piacere. Guardandolo a distanza, rispetto anche ad altri fenomeni che si creano, posso dire che ha una sua specialità nel senso che è un prodotto in cui la massima qualità e il massimo successo vanno insieme. E non sempre è così. È un caso eccezionale in questo senso e a distanza di anni questa cosa la vedo.
Le serie tv tra l’altro sono quelle preferite dal pubblico più giovane, soprattutto per la maggiore fruibilità. Il teatro, invece, è ancora sentito come qualcosa di “noioso”. Come mai secondo te?
Secondo me sono sempre i luoghi che sono noiosi. Il teatro è erotico, lisergico, sovversivo. È come sono presentate e impacchettate le cose, come ai giovani si chiede di stare a teatro. Quando si scoprirà che il teatro è un luogo in cui lo spettacolo lo devi guardare come se si stesse guardando un concerto, allora si inizierà a percepirlo e viverlo diversamente. Se il luogo ti ispira un altro tipo di contemporaneità allora va benissimo anche proporre il Seicento, il Quattrocento, la tragedia greca e così via. Non c’è bisogno dei costumi contemporanei, è il luogo che deve essere contemporaneo.
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