“La situazione stava degradando, così ho fatto i bagagli e sono partita per l’Ucraina”. Francesca Mannocchi, giornalista freelance, è stata tra le prime inviate di guerra ad arrivare nel Paese guidato dal presidente Zelensky, che ormai da dieci mesi combatte contro l’invasione russa, iniziata il 24 febbraio 2022.
Da sempre impegnata a raccontare sul posto quel che succede sui campi di battaglia, al fianco dei soldati che imbracciano le armi, ma anche di chi resta a casa per sfamare donne, bambini e anziani, le prime vittime di questo conflitto che sembra non vedere una fine. “La realtà è stata superata dalla finzione. Ci sono delle cose che le nostre orecchie non avrebbero saputo inventare”, dice la giornalista ospite dell’ultima serata del Marina Café Noir, sabato 17 dicembre, al Teatro Nanni Loy di Cagliari.
Insieme a lei anche il fumettista cagliaritano Igort, che ha realizzato le grafiche per il suo ultimo libro “Lo sguardo oltre il confine. Dall’Ucraina all’Afghanistan, i conflitti di oggi raccontati ai ragazzi” (Agostini, 2022). Un testo che si rivolge per la prima volta ai più piccoli, dopo una lunga serie di resoconti di guerra che hanno conquistato importanti premi in ambito giornalistico: dal Franco Giustolisi “Giustizia e Verità” nel 2015 con l’inchiesta realizzata per LA7 sul traffico di migranti e le carceri libiche, il Premiolino nel 2016 e il Premio Ischia internazionale di giornalismo nel 2021.
Suo anche il documentario, diretto con il fotografo di guerra Alessio Romenzi, “Isis, Tomorrow. The Lost Souls of Mosul” (2018), sui figli dei combattenti dell’Isis, presentato alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia.
“Fino a che non trovi il carro armato dentro casa pensi che non succederà”, continua Mannocchi di fronte al pubblico in sala. “Io come tanti sono andata direttamente in Donbass immaginando che se fosse successo qualcosa sarebbe stato lì. Quando sono arrivata la prima cosa che ho fatto è stata andare all’amministrazione municipale di Kramatorsk e ho chiesto: ‘State organizzando gli ospedali da campi? Un rifugio per gli sfollati?’ Non c’era nulla. Questo ci dice che finché non hai il nemico dentro casa pensi che non entrerà. La seconda cosa che ho notato è che i rifugi anti aerei in Donbass erano chiusi perché la densità della guerra era molto bassa, esattamente il contrario di quello che ci hanno raccontato i russi”, racconta l’inviata che ha ben chiaro come sono andate le cose.
“Dobbiamo capire che questa è una guerra nostra”, chiude Mannocchi senza lasciare spazio a mezzi termini.
Hai detto che la guerra in Ucraina è una guerra contro la democrazia. Secondo te noi occidentali la stiamo dando troppo per scontato? Non riusciamo ad accettare che questa realtà potrebbe essere anche la nostra?
Io credo che ci siano due processi. Il primo è che noi occidentali vogliamo allontanare la consapevolezza che questa guerra ci riguardi, perché esserne consapevoli ci imporrebbe di chiederci come agire e come essere presenti in questo conflitto, qual è il limite oltre il quale possiamo arrivare e oltre il quale non vogliamo spingerci. Quindi finché noi continuiamo a pensare che questa è una guerra che riguarda solo la popolazione ucraina, per noi il ragionamento resterà diamo loro armi oppure no, chiediamo la pace oppure no.
Qual è allora la strada da intraprendere?
Il ragionamento è molto più ampio, perché chiedere a un Paese invaso militarmente, che sta subendo quello che l’Ucraina sta subendo da dieci mesi, di negoziare con chi sta bombardando le infrastrutture, uccidendo bambini, distruggendo un Paese intero, significa non rendersi conto che c’è un conflitto che esula la popolazione e la geografia ucraina, e che riguarda il nostro sistema di valori. Chiedere di negoziare oggi all’Ucraina significa sancire che lì oggi sta vincendo chi utilizza la forza per avanzare dei progetti, che sono dei progetti imperiali. E se noi avvalliamo questa cosa, veniamo meno ai principi che animano il nostro Occidente per come lo conosciamo e per come l’abbiamo costruito e difeso, che è lo stato di diritto.
Secondo te sono credibili le posizioni della premier Giorgia Meloni e del centrodestra in generale rispetto all’appoggio all’Ucraina?
Il partito di maggioranza nel governo, che è certamente quello di Meloni, ha rivendicato in campagna elettorale al meeting di Cernobbio una posizione che non ha avuto una sfumatura o un inciampo rispetto al supporto all’alleanza atlantica. Le parole di Meloni in Parlamento sono state nettissime e la sua posizione mi sembra molto solida. È chiaro che deve gestire delle increspature interne, che riguardano i rapporti passati della Lega con il Cremlino e l’antica amicizia che Berlusconi non smette di rivendicare con Putin. Devo dire che analoghe divergenze di opinioni sono al centro anche dei rapporti tra l’opposizione. La situazione mi sembra assolutamente speculare. Il PD ha nella sua maggioranza una posizione filo atlantista – e non potrebbe essere altrimenti – e tuttavia a fare l’opposizione a questo governo c’è anche il partito di Conte, che è un movimento che si sta attribuendo la campagna pacifista. Mi sembra che sia maggioranza che opposizione abbiano molte grane su questa vicenda.
È interessante notare come la figura dei giornalisti freelance sia molto cambiata dalle Torri Gemelle, quando erano considerati voci più autorevoli rispetto alle testate tradizionali. Oggi venite considerati il “megafono” di Zelensky. Com’è cambiata questa percezione?
È cambiata la definizione dei giornalisti come “giornalisti al soldo della Nato”, che viene da persone che usano questi biechi mezzucci perché non hanno argomentazioni per rispondere sul merito delle questioni che noi poniamo. E questo è veramente molto triste da un punto di vista intellettuale e generazionale. Io inviterei chi ci accusa di essere “al soldo della Nato” o “al soldo di Zelensky” di venire a discutere di temi con noi, pubblicamente, e vedremo quanto tutti questi punti campati per aria verranno smontati tassello dopo tassello. La seconda cosa sulla quale mi sento di lanciare una provocazione è che noi che abbiamo coperto il conflitto in Ucraina siamo stati spesso invitati a vedere la guerra dall’altra parte. Ci sono fior fior di giornalisti italiani, molti inviati anche dalla televisione pubblica, che parlano al Paese da Mosca, hanno la press card russa per lavorare lì. Ecco, andassero loro al fronte a raccontare cosa succede.
Ultima domanda sulle donne, di cui ti sei occupata a lungo sia durante la guerra in Siria, in Afghanistan, in Iraq e ora in Iran. Qual è la situazione oggi?
Le donne sono state una parte dominante della vita dell’attivismo di questi anni. Le donne afghane, ad esempio, che abbiamo raccontato a partire dallo scorso anno e ora sono rimaste un po’ fuori dai radar della narrazione, ma non si sono arrese. Continuano a studiare, soprattutto le ragazze, e a farlo clandestinamente. Le donne iraniane, senz’altro, le donne irachene anche, ma in realtà tutta la società civile irachena sta scendendo in piazza. Io credo che più che una questione di genere – che ovviamente resta fondamentale -, molte piazze del mondo ci stanno raccontando delle proteste che sono generazionali e post ideologiche. Lo sono le ultime piazze nordafricane, tunisine, lo sono le piazze iraniane. Sono tutte piazza differenti, ma sono tutte piazze che ci raccontano dei giovani che vivono e protestano secondo logiche diverse da quelle a cui erano abituati le generazioni dei padri. Io credo che noi dobbiamo leggere tutte queste manifestazioni di dissenso, contro il potere, in una chiave sociologica e generazionale, e soprattutto non abbandonare queste ragazze e ragazzi che coraggiosamente continuano a combattere.
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