Claudia e Francesco sono due anime complementari. Fin da piccoli si osservano, si cercano, si attraggono e si respingono. Lei è spavalda, capelli rossi e cravatta. Lui è acceso da una fede dogmatica e incerta allo stesso tempo, ma sempre incline alla curiosità erotica. Cresciuti entrambi a Martina Franca, in provincia di Taranto, a un certo punto scelgono due strade diverse: lei scappa dalla provincia e parte per Londra, poi Milano e Berlino. Lui che nel frattempo è rimasto a casa, la raggiungerà nella capitale europea della trasgressione, dove inizieranno ad esplorarsi l’un l’altra, finalmente liberi. O quasi.
“Spatriati” è l’ultimo romanzo di Mario Desiati, vincitore del Premio Strega 2022, in cui racconta una generazione irregolare, fluida, sradicata: la sua. Un riconoscimento che non è stato cercato, impegnato com’era in Germania nella stesura del suo prossimo romanzo. Eppure, lo scrittore pugliese, classe 1977, è stato scelto tra i cinque finalisti dell’ambitissimo premio letterario con ben 166 preferenze.
Per la serata al Ninfeo di Villa Giulia, si è presentato con un laccio nero al collo che, come ha spiegato lo stesso autore prima di scendere dal palco, “rappresenta il mondo del clubbing che i due protagonisti Claudia e Francesco vivono a Berlino”. Sotto il vestito di Valentino, una blusa di seta bianca “che con queste fusciacche ricordava le stole dei sacerdoti, perché nella prima parte del libro c’è anche molto cristianesimo rivisto dalla parte di uno spatriato”. Ai piedi le scarpe arcobaleno che si abbinano alla pochette, “perché da sempre mi sento parte della comunità Lgbtq”.
Ma prima di fare il grande passo, ha lavorato come giornalista di cronaca politica e sportiva su testate martinesi come Il Corriere della Valle d’Itria. Dal 2003 si è trasferito a Roma, dove è stato caporedattore della rivista Nuovi Argomenti, e redattore junior della Mondadori. Dal 2008 all’ottobre 2013 si è occupato della direzione editoriale della Fandango Libri, confluita oggi nel gruppo indipendente Fandango editore. Da un suo romanzo poi è stato tratto l’omonimo film “Il paese delle spose felici”, per cui non ha collaborato come sceneggiatore.
Nella serata di domenica 27 novembre, quella conclusiva del Festival Pazza Idea, al Ghetto di Cagliari, Desiati ha presentato il suo ultimo romanzo nel panel “Così lontani, così vicini” in conversazione con Irene Soavi. È la prima volta che l’autore si fa vedere in Sardegna, terra che ha avuto modo di conoscere anche attraverso i romanzi di Sergio Atzeni. “È tra i miei autori preferiti, adoro ‘Il figlio di Bakunin’”, dice prima di salire sul palchetto sistemato ad hoc. “Lo consiglio sempre a chi non lo conosce, perché è uno degli scrittori italiani più interessanti dell’ultimo scorcio del novecento: per il suo sguardo sulla storia, sul proprio presente, ma anche per una certa dolenza, che non è mai piangersi addosso”, aggiunge.
Inizia la presentazione. Un confronto sincero, di fronte a un pubblico attento, con un vero e proprio stato d’animo: quello dello “spatriato”.
Partiamo dal tuo ultimo romanzo, vincitore del Premio Strega 2022. Chi sono gli “spatriati” di Mario Desiati?
Gli spatriati sono persone che non appartengono a un’idea precostituita, al pensiero dominante. Sono gli irregolari, coloro che non si vogliono definire. “Spatriato” in italiano si riferisce a qualcuno che è andato via, ma in questo caso, nel mio dialetto pugliese, ha un’accezione in più che ha a che fare proprio con l’irregolarità, col non voler nessuna etichetta. Mi sembrava un po’ un modo per raccontare Claudia e Francesco, due persone che cercano se stesse ma non vogliono aderire alla forma che scelgono altri per loro.
La Treccani lo ha aggiunto anche ai neologismi d’autore, sottolineando l’essere senza punti di riferimento. Come hai preso questa notizia?
Quando l’ho saputo son stato molto contento, è stato un po’ un orgoglio campanilistico perché è una parola in più che entra nel vocabolario che per una volta viene dal pugliese e non dal fiorentino [sorride].
Ma come si fa a vivere senza punti di riferimento?
Diciamo che questa è una sfumatura aggiuntiva della Treccani. Io mi riferisco a chi vive fuori dagli schemi, cosa che accade un po’ in tutte le comunità. Oggi c’è un termine, “queer”, che rappresenta perfettamente questo concetto, con una accezione legata prevalentemente alla sfera sessuale. “Spatriato” invece può essere utilizzato anche in altri ambiti, come quello sociale, politico e religioso.
Hai detto che leggere è un esercizio spirituale, che qualche volta ti ha rovinato e altre ti ha salvato. Come funziona?
Sì è una definizione che ho rubato a Goethe. Effettivamente quando noi leggiamo ci raccogliamo, e questo ci permette di prendere contatto col nostro corpo, con la nostra spiritualità. Rovina perché a volte la lettura ti fa vedere delle cose che era meglio non vedere, però poi ti dà anche lo scarto forte di avere uno sguardo in più per la vita che fai. Perché guardare il mondo avendo più parole, anche per nominare un male, un’emozione, è fondamentale. Non nominare un’emozione ci fa perdere il contatto con noi stessi.
Questo autunno l’hai trascorso a Berlino, da sempre casa di spatriati. Dove prendi ispirazione in città?
Ci sono dei posti a cui sono molto legato, che poi sono gli stessi che ho raccontato nel romanzo. Ci sono dei pezzi di città dove ancora si respira un po’ una Berlino pre-gentrificazione, soprattutto in periferia. E poi c’è un club notturno che mi piace molto, in cui vado spesso, che è il KitKat, in cui trovo spesso ispirazione per le mie storie.
Hai già anticipato che nel tuo prossimo romanzo ci sarà tanta Taranto, da dove arrivi. Lo spatriato torna a casa?
No no sarà anche quello un libro a metà fra l’Italia e la Germania. La base italiana sarà appunto Taranto. Poi ci sarà una parte storica, un elemento vicino a una ricostruzione psicologica e genealogica di questa nuova storia.
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