Scrittore, saggista e critico letterario, Walter Siti è tra gli intellettuali italiani che non ha mai fatto fatica a tirar fuori tutte le contraddizioni del settore culturale del Bel Paese che negli ultimi anni, a detta dello stesso autore, si sta avviando sempre più verso una “cultura della decostruzione” che rischia di far sbandare i più.

Nel corso della sua carriera, durante la docenza all’Università di Pisa, della Calabria e dell’Aquila, si è occupato nei suoi saggi di Montale, Penna e Pasolini, sul quale si è soffermato per oltre cinquant’anni come curatore della collana “I Meridiani” della Mondadori. Nel 2013 ha vinto il Premio Strega e il Premio Mondello con il romanzo “Resistere non serve a niente” edito da Rizzoli.

A far discutere sono anche i suoi editoriali pubblicati su La Repubblica e Domani, dove si confronta quotidianamente sui temi d’attualità più sentiti nel mondo letterario contemporaneo e non solo: dalla cancel culture al bodyshaming, passando per gli autori “impegnati” e lo schwa. Nessuno sconto, le riflessioni di Siti non lasciano spazio a superficialità e luoghi comuni. Da ultimo, quello con la scrittrice sarda Michela Murgia, con cui ha discusso del ruolo degli scrittori e della letteratura stessa al Literary Fiction Festival di New York.

In occasione del Festival dei lettori creativi Bookolica, nato cinque anni fa per dare un nuovo impulso culturale alle comunità locali, è stato l’ospite d’eccezione durante la serata di sabato 3 settembre a La Maddalena. Insieme a Tanino Liberatore, illustratore e fumettista, definito da Frank Zappa “il Michelangelo del fumetto italiano”, ha presentato il panel “Ai confini del corpo e della morale”, riprendendo l’opera del romanziere italiano tra i più discussi del Ventesimo secolo.

Il corpo come strumento di comunicazione e di lotta. Che fine ha fatto il discorso di Pasolini oggi?

Io ho l’impressione che la cultura dominante in questo momento tenda a smaterializzare il corpo. Da una parte perché esiste un grande slancio per la virtualità, per cui il corpo è più un corpo rappresentato, un corpo visto. Anche i ragazzi ad esempio comunicano moltissimo mandandosi foto del proprio corpo, cercando immagini anche pornografiche. Alcuni di loro addirittura dicono che preferiscono il sesso virtuale a quello reale. D’altra parte temo che con questa “cultura della decostruzione” il tema dell’ossessione, come ad esempio l’essere ossessionati dal proprio corpo come fu per Pasolini o dalla donna che poi l’ha condotto al suicidio, com’è successo a Pavese, abbia portato a legarlo a un fatto individuale. E cioè l’idea di proiettare su un singolo individuo un intero mito: quella persona e nessun’altra poteva in quel momento, per Pavese, provocargli quel tipo di ossessione. Adesso invece mi sembra che si tenda a parlare molto per categorie. Per esempio, la perversione, che è certamente un elemento trasgressivo, di infrazione, per cui è difficile immaginare una perversione senza la violenza, senza la presenza del male, oggi viene catalogata e si tende a dedicare ai perversi dei diritti. Penso al sadomasochismo: ci sono delle associazioni che dicono che il loro modo di praticarlo è assolutamente reciproco, che ci si basa su delle regole accettate da entrambi e che non c’è nessun elemento di violenza. E chiedono che nel grande mondo Lgbtq+ siano rappresentati anche i loro diritti. Quindi si privilegia il tema dei diritti, che in qualche modo è una specie di antidoto al tema della perversione come la intendeva Freud, un qualcosa che va contro la normalità. In vari modi mi sembra che l’idea di un corpo come qualcosa che può essere scandaloso sia molto attenuato e rimosso dalla cultura del momento.

Lei ha anche scritto di recente che “non tutto è bodyshaming”, che non bisogna aver timore o pudore nel giudicare i corpi degli altri.

Sì il fatto che si faccia fatica a parlare di bellezza o di bruttezza di un corpo è un po’ come se tutti i corpi diventassero un po’ uguali. Se noi parliamo in termini di semplice cittadinanza è anche giusto: se sono un buon cittadino, non è che devo cominciare a dire questa donna è grassa o quell’uomo è obeso. Ma se si tratta del desiderio di un corpo, anche l’idea che ci sia un corpo ideale perché quelle persone si avvicinano di più a quella che è la mia idea di corpo ideale, non ci vedo niente di male. Son semplicemente delle preferenze individuali che hanno a che fare col desiderio, per cui io ho certamente in testa la mia immagine di corpo e quello di Maurizio Costanzo, per fare un esempio, non obbedisce a quei criteri. Dopodiché come cittadino è chiaro che trovo che Maurizio Costanzo abbia tutti i diritti tanto quanto un ragazzo muscoloso e allenato e così via. Però perché non devo dire che c’è una differenza?

Diciamo che chi al contrario difende il “rispetto del corpo altrui”, teme che possano esserci delle ripercussioni, sia a livello fisico, come nel caso di donne e Lgbtq+ sia a livello psicologico, in particolare per gli adolescenti.

Sì ma è proprio questo il problema: una cosa è essere dei bravi cittadini, un’altra è essere degli individui desideranti. Spesso tra le due cose si crea una tensione drammatica: alcune cose che non vanno bene dal punto di vista della cittadinanza, posso continuare a desiderarle lo stesso. Oggi mi sembra che si tenda ad appianare questo tema della drammaticità e della tragicità, c’è gente che su queste cose ci è morto. Lo stesso destino di Pasolini è stato legato al fatto che il suo progressivo essere legato a una certa tematica, quella del sadomasochismo, lo ha portato sempre più in zone pericolose quindi è stato più facile prenderlo in trappola. C’è sempre stata una tensione tragica, mentre ora ho l’impressione che quel tipo di cultura lì tenda molto ad annullare questi due aspetti e a trovare invece momenti di pacificazione, come se la cosa più importante fosse non offendere. Che naturalmente è giusto, ma a forza di aver paura di offendere le persone, si finisce per vivere in un mondo un po’ ovattato, dove poi le tensioni uno le vive nel proprio inconscio e si possono creare delle situazioni non controllate, alla fine.

Tornando al tema del decostruzionismo, ha scritto che “in Italia la tutela dei diritti di minoranze sempre più esigue porta anche a rimozioni ed esclusioni” e in particolare delle tradizioni considerate tipicamente italiane. Crede che sia questo il motivo per cui Giorgia Meloni è data per vincente nei sondaggi?

Non vedrei un rapporto così diretto. La destra si è sempre appoggiata a un’idea di cultura tradizionale: Dio, Patria, Famiglia. In questo momento, il discorso che facevo è che più la sinistra dà l’impressione di volere rivoluzionare delle cose che stanno molto alla base, come il patriarcato e l’idea stessa di Occidente – peraltro dicendolo non in un modo realmente rivoluzionario, ma lavorando sul linguaggio, quindi su cose a lunga scadenza – e trattando con sospetto tutti i temi che sono della tradizione, più finisce per regalare alla destra uno spazio che si potrebbe anche rivendicare alla sinistra. Ad esempio, il tema della patria non è necessariamente di destra: Manzoni diceva che questa è “una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor”, si sforzava di creare un italiano che fosse riconoscibile e parlabile dalle Alpi alla Sicilia. Non era una cosa di destra. È una cosa democratica, in quell’epoca. Esiste anche un modo democratico per interpretare il tema della patria, o il tema della religione o ancora della famiglia. Quindi perché lasciare tutte queste cose alla destra dicendo ah ma noi ormai siamo più avanti di così, noi ormai siamo completamente fluidi, noi non riconosciamo nemmeno le distinzioni di genere e vogliamo vivere in un mondo dove uno decide che se non si sente né maschio né femmina bisogna rispettare quello che lui si sente e così via. Questo tipo di cultura dovrebbe riflettere che ci sono cose che non si decidono parlando, a livello di comunicazione, ma si decidono a livello di forza: se un Paese decide di invaderne un altro non è che si può risolvere senza le armi e dire vabbè parliamone. Bisogna tenere conto che ci sono anche dei rapporti forza che non si risolvono soltanto sul piano culturale.

Qualche mese fa ha dialogato con la scrittrice Michela Murgia rispetto alla figura degli intellettuali, che oggigiorno son sempre più “impegnati”, lasciando da parte il vero ruolo della letteratura che è quello di tirar fuori le contraddizioni della vita. Secondo lei siamo a un punto di non ritorno?

No non credo che siamo a un punto di non ritorno. Anche con Michela, inteso che l’opposizione fosse più di superficie e meno di sostanza, quando lei dice che è principalmente una scrittrice ma anche una militante, significa che usa la letteratura per i suoi scopi. Io sono strettamente d’accordo con lei. È lecito fare un’operazione di questo tipo: basta saperlo. Quando uno si lancia in un’impresa come quella di scrivere un romanzo, non sa durante il percorso se alla fine l’opera risulterà esattamente come la si era pensata all’inizio oppure no. È un’avventura che non si può controllare dal principio alla fine, come faresti invece per una cosa politica. Perché entrano in ballo molte cose. Sono due modi molto diversi di considerare le parole: o le considero come un piccolo esercito che mi serve per andare in una certa direzione, e allora devo essere spietato con le parole, oppure mi lascio andare alle parole, lascio che siano loro a prendere l’iniziativa, però in quel caso non sono certo che il risultato sia esattamente come io volevo.

In queste elezioni si deciderà che fare dei nostri corpi. Si è parlato più volte del diritto all’aborto, all’inseminazione artificiale e all’eutanasia. Lei che sensazione ha rispetto a quel che succede nel nostro Paese?

Credo che in qualche misura, facendo anche del corpo un discorso, si sia poi lasciato in mano alla cultura più tradizionalista e conservatrice l’idea che il corpo è qualche cosa di immutabile e anche di cui noi non siamo del tutto proprietari. Ad esempio i cattolici dicono che è Dio che ci ha dato il nostro corpo, quindi non è nella nostra disponibilità piena. È un discorso anche giusto, se però io credo nel Creatore. Al contrario, una visione laica porterebbe a dire che se un uomo o una donna sono perfettamente consapevoli del proprio corpo, possono anche deciderne che cosa farne. Io sono assolutamente d’accordo con l’eutanasia: trovo che se una persona, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, non una volta sola ma per un certo periodo di tempo mantiene l’idea che da quel momento in poi la sua vita, per ragioni di malattia eccetera, non valga più la pena di essere vissuta, penso che possa farlo senza troppi dolori. Quel che sta facendo Marco Cappato mi sembra assolutamente molto civile e molto utile. E così anche le donne, penso che abbiano tutto il diritto di decidere se andare fino in fondo a una gravidanza oppure no. Anche lì è un problema se noi pensiamo che la vita dipenda da altro. Ma bisogna essere chiari: dovremmo essere uno Stato religioso in cui si stabiliscono tutte queste condotte, ma non mi risulta che oggi noi viviamo in uno Stato di questo genere.

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