A cinque anni Jacopo Cullin era già un passo più avanti degli altri, e uno accanto a quello di suo fratello, con il quale ha iniziato le elementari da “primino”. Cresciuto a panino e parmigiano, calcio e wrestling sotto i portici del CEP, inizia a studiare teatro a sedici anni e sogna di salire, un giorno, sul palco dell’Anfiteatro Romano di Cagliari. Dopo varie estati trascorse a fare l’animatore turistico, pulire un teatro e attaccare le locandine degli spettacoli per pagarsi altri seminari di recitazione, decide di fare il salto: parte a Roma e investe tutti i soldi che ha per pagarsi gli studi e gli affitti.

Da lì inizia a farsi conoscere: a ventisei anni è sul palco di Zelig dove porta il Signor Tonino, e il pubblico apprezza. Iniziano i primi lavori sul set per alcune serie tv. Ma Cullin vuole fare cinema. Parte per New York, poi Puerto Rico dove girerà il suo primo cortometraggio, finché non torna a casa. E proprio qui, precisamente in piazza del Carmine, riceve una telefonata: “Ti abbiamo preso, sarai Matzutzi!”. A trentun anni, l’attore cagliaritano presenta il film “L’arbitro” (2013) al Festival di Venezia, insieme ad attori come Stefano Accorsi e Francesco Pannofino.

È l’inizio di una rapida ascesa nel mondo del grande schermo, dove tornerà con altri due capolavori: “La stoffa dei sogni” (2015) per la regia di Gianfranco Cabiddu e “L’uomo che comprò la luna” (2018), diretto da Paolo Zucca. Lo scorso anno si è fatto conoscere al pubblico di Rai Uno con “Le indagini di Lolita Lobosco”, dove interpreta i panni di un poliziotto accanto a Luisa Ranieri, altro volto noto del cinema nostrano.

Ad aprile ha compiuto quarant’anni e per festeggiarli si è regalato il tour teatrale “È inutile a dire”, in giro per la Sardegna, dove dialoga di società liquida, relazioni e crisi esistenziali. Un modo per mettere un punto fermo ai suoi primi vent’anni di carriera e tornare, dopo due anni di pandemia, lì dove tutto è iniziato.

Nel tuo nuovo spettacolo racconti la “società liquida”, che si sviluppa negli Usa ed è arrivata fin qui. La Sardegna, terra di tradizioni millenarie, ne è rimasta immune o ne è stata travolta come tutti gli altri?

Una parte è stata travolta come tutti gli altri, mentre chi si è tenuto fuori da social e altri dispositivi che ti permettono di navigare ovunque è riuscito a restarne immune. Ma penso ai giovani, e tutti noi, ormai chi è che non fa parte di questa società qui? Sicuramente nelle piccole comunità è più semplice vivere i rapporti di un tempo, perché si vive vicini, si vive la stessa realtà senza troppe contaminazioni. Però, più o meno, siamo stati travolti anche noi.

I protagonisti del tuo racconto sono tre uomini inconfondibilmente sardi alle prese con i grandi cambiamenti della nostra epoca, che evidenziano il forte gap che c’è con le nuove generazioni. Come si supera questa distanza?

Guarda in realtà io non l’ho mai sentita la distanza. Con la sincerità forse. Essendo onesti e curiosi, da una parte e dall’altra. Ci vuole la curiosità di un anziano che ha voglia di capire dove sta andando il mondo e come sta cambiando, e dall’altra parte la curiosità di un giovane di capire come si facevano le cose un tempo, come funzionava prima, e lì trovare un punto di incontro perché alla fine se vai all’essenza è uguale da millenni.

Porti sulla scena tre personaggi maschili, ma le donne sono altrettanto presenti nei tuoi dialoghi con Gabriele Cossu. Penso ad esempio a tua madre. Che ruolo hanno le donne nella tua vita?

È fondamentale, un ruolo principale. Mia madre soprattutto, sono cresciuto con lei. Abbiamo un bellissimo rapporto, la prendo in giro, ride, ci divertiamo. Quindi massimo rispetto: questo è sicuramente quello che mi ha insegnato mia madre.

In questi anni, nonostante la pandemia, sei riuscito a lavorare sul grande schermo insieme a un’attrice d’eccezione come Luisa Ranieri e un grande regista come Marco Bellocchio. Com’è stato lavorare con dei “mostri sacri” del cinema italiano? C’è qualche aneddoto che ti va di raccontarci?

Il mostro sacro è sicuramente Bellocchio, l’unico grande maestro che è rimasto in vita del cinema italiano. Io ho accettato di fare un ruolo non principale perché primo se ti chiama Bellocchio ci vai per forza, e poi volevo vedere come si comportava sul set, quindi stavo a fianco a lui anche quando non dovevo girare, lo osservavo. Era sempre molto bello trovare una persona di quell’età con quella testa, e l’eleganza e la gentilezza che ha verso tutti indistintamente. Questa per me è stata la cosa più bella da vedere. Poi con Luisa ormai siamo amici, quindi lavoriamo, ci divertiamo. Non fa la diva, è tutt’altro. Ora abbiamo finito le riprese e tornare sul set per il secondo anno è stato come tornare da “una cricca di amici”.

Ora che ti sei fatto conoscere anche a livello nazionale, pensi di “uscire” dal ruolo dei tuoi personaggi oppure credi che sia proprio questa la tua forza e vuoi proseguire per questa strada?

No tutt’altro. In realtà questi personaggi li ho portati a teatro, principalmente in Sardegna. Ma fuori ho fatto tutto tranne che il sardo: una volta facevo l’argentino, un’altra il milanese e ora faccio il barese. Lo farò comunque, li porterò anche fuori.

A proposito di “sardità”, tu hai recitato anche con Benito Urgu che ha in qualche modo contribuito a definire il cliché dell’uomo tipico sardo. Quant’è difficile toglierselo di dosso dentro e fuori dalla scena?

Be io sono cresciuto con le sue cassette come penso cinque-sei generazioni. Adesso siamo diventati amici, abbiamo fatto due film e uno sketch insieme, che è andato direi piuttosto bene. Sugli stereotipi però non penso che abbia contribuito lui a diffonderli, soprattutto fuori dalla Sardegna. Lo stereotipo viene da film come “Padre, padrone”, che non ci rappresentano affatto. Quello che voglio fare io è cercare di far capire che esiste un altro tipo di Sardegna, che i sardi non sono quei cliché lì, comportandomi come ho sempre fatto, senza dover strafare per dimostrare niente a nessuno.

Tornando allo spettacolo, il focus è sulle relazioni personali in continuo cambiamento: quasi non si riesce più a distinguere ciò che è stato vissuto pienamente e quel che invece è stato vissuto attraverso un filtro. Tu che reciti fin da giovane, e quindi sfrutti in qualche modo un filtro, come la vedi?

Be diciamo che questa trasformazione sto ancora cercando di capirla, ho la necessità di fermarmi spesso perché se no non ci capisco nulla. Le mie relazioni più importanti ci sono e me le porto dietro da anni. Diciamo che il mio mestiere mi ha facilitato un po’. È cambiato però il rapporto col pubblico, attraverso i social soprattutto: se li usi in maniera onesta, le persone lo apprezzano e devo dire che mi sta aiutando molto per comunicare e in generale far conoscere i miei spettacoli e il mio lavoro, ma anche per conoscere i miei spettatori.

La filosofia sarda, come raccontano anche i tuoi personaggi, è piuttosto spicciola e ha un po’ a che fare con l’impossibilità di avere un controllo su tutto quel che ci succede. Tu che ne hai fatto il tuo motto quando l’hai imparato?

In realtà lo sapevo da tempo ma non riuscivo mai a metterlo in atto. È un po’ anche il detto “come fanno a Bosa, quando piove lasciano piovere”. Lo sto mettendo in atto da poco e ho iniziato a pensarci da poco prima della pandemia, dopo lo sketch con Benito Urgu. Ti alleggerisce tantissimo il sapere che se le cose non devono andare non vanno, se vanno vanno. Quindi mi piace come tipo di filosofia.

Porti il tuo spettacolo anche in due centri più “periferici” come Fonni e Iglesias. Una scelta fuori dal comune considerati i costi che comporta. Come hai convinto il tuo team ad accettare?

Non l’ho convinto, gli ho detto: dobbiamo andare lì [ride, ndr.]. Ho scelto di fare un tour in posti belli e suggestivi, volevo che lo spettacolo fosse anche il luogo dove si va a farlo. E poi è anche bello che le persone possano conoscere dei posti come le miniere di Montevecchio, oppure andare a Fonni d’estate, che tra l’altro c’è anche un bel fresco! Abbiamo ricevuto davvero decine, decine di richieste ma poi abbiamo scelto quelle che ci sembravano più “giuste” per questo tour.

Ultima domanda. Tu sei molto seguito dai più giovani, ma il teatro stenta ancora a decollare tra le nuove generazioni. Il tuo pubblico lo vedi cambiato in questo senso?

Sì devo dire che il mio pubblico è di tutte le età, me ne accorgo alla fine dello spettacolo quando ti chiedono di fare le foto o si fermano a scambiare due parole. Soprattutto all’ultimo c’erano tantissimi bambini e ragazzi molto giovani, che si sono avvicinati e mi hanno detto “ti stimo un sacco”. È una bellissima soddisfazione. Quando piaci a loro vuol dire che hai un tipo di comicità universale, quindi è molto bello.

Leggi le altre notizie su www.cagliaripad.it