Era il pomeriggio del 24 giugno 1978. Non un giorno qualsiasi. Le famiglie italiane erano tutte sintonizzate sulla tv a casa o al bar del paese per non perdersi l’evento dell’anno: Italia-Brasile. Ci si giocava il terzo e quarto posto per la Coppa del Mondo. Luca Locci, originario di Macomer, all’epoca aveva solo sette anni, e aveva trascorso la giornata al mare con la madre Paola, a Bosa, per poi rientrare verso sera. Il padre Franco, concessionario della Fiat e pilota automobilistico, quel giorno era a Macerata impegnato in una gara.
Una volta tornati a casa, la madre era salita su, mentre Luca era rimasto un altro po’ a giocare con gli amici di sempre.
Le strade erano deserte. L’occasione perfetta. Fu proprio in quel momento che Luca sparì, rapito dall’Anonima sequestri. Una volta resasi conto del fatto, la madre diede subito l’allarme. Nessuno si era accorto di nulla, tutti intenti a tifare la Nazionale italiana guidata dal capitano Dino Zoff, tra un coro e l’altro.
Furono tre lunghi mesi, quelli in cui Luca dovette vivere, come racconta nel suo libro “Il sequestro di un bambino” (La Zattera), giorno dopo giorno, insieme ai suoi rapitori, con un cappuccio sulla testa e un mitra sempre puntato addosso. Fu il secondo bambino sequestrato in quell’anno, dopo l’undicenne Mauro Carassale, figlio di un commerciante olbiese, rapito a Portisco.
Così come altri suoi coetanei, a soli sette anni Luca era già stato “condannato” per il solo fatto di provenire da una famiglia agiata, da un marchio – quello della Fiat – considerato “nemico” del popolo sardo. Una faccenda che fu possibile risolvere soltanto con il pagamento di un riscatto, che costò tutti gli anni della sua infanzia.
Hai sempre raccontato di avere un ricordo molto nitido del tuo rapimento, nonostante fossi molto piccolo. Ci racconti com’è andata?
Ho impresso nella mente tutti i giorni della prigionia indistintamente: il giorno del rapimento, i lunghi ed interminabili giorni della prigionia ed il giorno del rilascio. Tutto è chiarissimo nonostante i miei sette anni di età. Questa lucidità è confinata al periodo che sono stato sotto sequestro in quanto oggi fatico a ricordare cosa ho fatto nei giorni passati.
Come trascorrevi le tue giornate?
I primi giorni ero in preda alla disperazione, ma dopo qualche giorno ho trovato una forza inimmaginabile. Mi sono detto che piangere non mi sarebbe servito a niente, ho trascorso i giorni sempre seduto ed incappucciato. Il tempo era scandito dal sorgere e tramontare del sole, dopo pochi giorni sei perso, non sai più che giorno o mese sia, vivi in un mondo di orchi.
I tuoi rapitori ti puntavano addosso un fucile tutti i giorni, quando ti toglievi il cappuccio per mangiare. Come hai vissuto questa esperienza, da bambino, a un passo dalla morte?
Sì i miei rapitori avevano sempre il mitra con sé. In un’occasione mi hanno minacciato con la canna del mitra sul fianco. Un’esperienza che non può che essere vissuta con paura e disperazione da chiunque, ancor di più da un bambino di sette anni.
Non hai mai visto in faccia i tuoi rapitori. Ti sei mai preso la briga di identificarli più avanti?
Durante tutta la prigionia avevo sempre il cappuccio, l’unica volta che mi è stato tolto l’avevano loro. I loro visi li ho visti durante il processo. Identificarli? È una parentesi che apro nel mio racconto, a voi le dovute deduzioni.
Hai mai compreso, anche a distanza di tempo, le loro “ragioni”?
Le ragioni sono sempre le stesse, il movente è uno: il denaro cosiddetto facile.
Qual è stata la tua reazione alla cattura di Mesina? Credi che oggi quel sentimento di ammirazione provato per lui e i suoi sia ancora vivo o le cose sono cambiate?
La mia reazione è stata di assoluta indifferenza. L’ammirazione nei confronti di questi soggetti esiste ed esisterà sempre tra simili, ovvero personaggi della stessa caratura.
Oggi racconti la tua storia anche ai più giovani. Come la prendono?
I più giovani sono molto curiosi e, a differenza degli adulti, più schietti, increduli e piacevolmente coinvolti.
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