Clara Simon sfreccia in sella alla sua bici tra le vie di Cagliari, nei primi anni del Secolo Nuovo. Vuole arrivare prima degli altri, perché, anche se non vedrà mai la sua firma sui suoi pezzi pubblicati sul primo quotidiano letto in Sardegna, ce l’ha nel suo dna. Deve sapere cos’è successo, cosa si nasconde dietro quella scena del delitto, che non guarda in faccia a nessuno. E racconta, racconta, va avanti senza sosta, sebbene sono in tanti a guardarla col naso arricciato: cosa crede di fare, una donna, meticcia, nella nostra città?
Se l’è chiesto Francesco Abate, scrittore e storico giornalista dell’Unione Sarda, con un passato da dj e tante storie archiviate nei suoi ricordi, nel suo nuovo romanzo “Il complotto dei Calafati” (Einaudi, 2022), secondo volume di una – si ipotizza – trilogia, che segue le cronache che scossero il capoluogo sardo in un’epoca che stava mettendo le basi per una rivoluzione politica, sociale e culturale. È una ricerca precisa, ostinata e appassionata quella del giornalista cagliaritano, che vuole indagare, esplorare e riportare alla luce il passato della sua città, che in qualche modo ha influenzato e modellato le storie di chi la abita oggi. Se nel primo volume, “I delitti della Salina” (Einaudi, 2020), la protagonista era alle prese con la scomparsa dei “piciocus de crobi”, studiati persino dal criminologo lombrosiano Mario Carrara, in questa seconda parte dovrà fare i conti con l’uccisione di due Baroni dell’alta società.
La protagonista del tuo romanzo è Clara Simon, una giornalista donna di origini cinesi che segue la cronaca nera di Cagliari nei primi anni del Novecento. Per usare un eufemismo, è un po’ un outsider.
È così dici bene. È un personaggio di fantasia che però ricalca delle donne che realmente già facevano quel mestiere nel Novecento. Non a Cagliari, dove bisognerà aspettare il 1974 per vedere la prima giornalista donna assunta all’Unione Sarda. È anche vero, però, che Cagliari e la Sardegna in genere avevano delle figure alle quali mi sono ispirato per creare questo personaggio di rottura: intanto non possiamo non prendere in considerazione che l’anno della narrazione è il 1905 e una scrittrice come Grazia Deledda aveva già all’attivo romanzi importanti della sua carriera. Uno dei personaggi che mi ha più aiutato nella costruzione della figura di Clara Simon è stata una giornalista di altissimo livello, Paola Lombroso, la figlia del grande Lombroso, che dal 1889 al 1903 visse a Cagliari, perché il marito Carraro, il più importante allievo del padre, venne trasferito qui e lei lo seguì. Sarà una donna molto attenta alle disparità sociali alle quali dobbiamo la creazione del ‘Corriere dei piccoli’ e soprattutto delle bibliotechine rurali che hanno portato all’avvicinamento delle classi meno abbienti alla lettura. Senza andare a scomodare il grande esempio internazionale, che si fece ricoverare in manicomio per raccontarli, Nelly Bly. Se in campo giornalistico non possiamo individuare una figura in Sardegna, possiamo farlo in tanti altri ambiti lavorativi: la prima laureata sarda in Medicina, Paola Sanna, è del 1902, o la mia bisnonna laureata e la sorella, Emma ed Elvira Mereu, che nonostante appartenesse a una famiglia molto agiata aderì agli ideali anarchici e ogni volta che arrivava un reale in Sardegna veniva incarcerata di default, preventivamente. È a questo genere di donne a cui mi sono ispirato.
Le storie che si intrecciano nel romanzo sono tratte da fatti di cronaca realmente accaduti e pubblicati sia sui quotidiani locali che internazionali dell’epoca.
La mia fonte principale è L’Unione Sarda, perché quell’articolo francese venne poi ribattuto dall’agenzia Stefani che poi diventerà l’Ansa, e venne pubblicato dall’Unione in prima pagina. Come ho scelto i casi: l’anno di narrazione è il 1905, perché è un anno a cavallo tra i morti di Buggerru del 1904, grave fatto che spiega le tensioni sociali che avevano portato a quello sciopero soppresso nel sangue, e il 1906, anno del grande sciopero generale della Sardegna che costò a Cagliari la morte, per mano dell’esercito, di due ragazzini, uno di 16 e uno di 19 anni. Mi interessava collocare la narrazione tra questi due eventi, affinché quell’anno fosse condizionato dal grave fatto di sangue e premonitore dell’anno successivo, in periodo di Belle époque. La ricerca è stata ristretta, ho letto con attenzione tutte le cronache di quegli anni. È qualcosa di incredibilmente affascinante, essendo un romanzo a puntate ho avuto difficoltà a scegliere perché c’era così tanto. Una storia più bella dell’altra.
In un’intervista hai detto che la letteratura ti ha permesso di fare giustizia che la cronaca di quegli anni non ha fatto nei confronti dei personaggi che racconti. È ancora così?
No siamo arrivati a un opposto. L’esempio è relativo alle morti dei picciocus de crobi del primo romanzo. L’idea è nata leggendo sempre le piccole cronache. Tieni conto che L’Unione Sarda aveva solo tre pagine, di cui l’ultima era interamente dedicata alla pubblicità, quindi era tutto condensato. Non dobbiamo immaginarci grandi articoli dal punto di vista grafico, erano tutti articoli molto brevi: trovato morto bambino alle Saline, trovato morto bambino a sa Scaffa e così via. Con la logica di oggi, cosa ci aspettiamo? Oggi funziona diversamente: questa notizia viene esplosa ed esplorata in tutti i suoi aspetti per circa una settimana. Prima c’era la notizia ma non c’era un seguito: non si approfondiva chi era quel bambino, da dove veniva e altro. Le morti di quei bambini venivano derubricati a piccolo bestiame, non c’era uno sviluppo. Riparare significa dare una dignità, in quel caso, a quelle morti.
Ti sei occupato per tanti anni di cronaca nera. Oggi i giornalisti che seguono questa sezione son sempre meno, un po’ per i tagli un po’ per via del web. Cosa si sta perdendo?
Sì io ho fatto cronaca nera per circa quindici anni. Diciamo che sono entrate in vigore alcune sacrosante regole, che facilitano e perlomeno sono protettive nei confronti dell’indagine: prima sul luogo del delitto io e tanti altri colleghi ci siamo trovati a inquinare il luogo delle indagini, ad essere a un metro dal cadavere. E questo ovviamente oggi non è più possibile perché ci sono tecniche investigative nuove e ci dicono che ogni millimetro della scena del crimine è utile per l’indagine e non può essere incrinata. Quello che non va bene è che si è posto questo filtro per cui tutto passa attraverso le conferenze stampa: è limitata la possibilità del cronista di nera di essere comunque sul luogo e fare il proprio lavoro investigativo, come ad esempio parlare coi vicini, eventuali testimoni e raccontare l’atmosfera in cui si svolge quel determinato fatto di sangue. Quindi non è vero che non accade più, ma si tende a restringere il campo d’azione del cronista di nera. Però il buon cronista il suo lavoro lo fa.
Tornando al romanzo, racconti una Cagliari meticcia che è già realtà agli inizi del Novecento, ma allo stesso tempo questo mix di culture non è visto di buon occhio dagli stessi cagliaritani, così come succede alla protagonista Clara Simon. Oggi come descriveresti questa città?
Lei è figlia di quella città. Il meticciato l’ha resa migliore, che non è soltanto un’ibridazione esterna ma anche interna: Cagliari è sempre stata una città molto poco ospitale e aperta anche nei confronti dei sardi che non erano cagliaritani. Sardi che però, con grandi comunità – penso a quelle barbaricine o del Sulcis Iglesiente – hanno creato un loro forte condizionamento nei confronti della città e non hanno fatto altro che migliorarla. Oggi ad esempio si sente la necessità di dedicare una piazza a Desulo, ai Genovesi, i Pisani, i Piemontesi. È una città che negli anni, dal punto di vista della sua composizione sociale, è nettamente migliorata, molto più capace di accogliere, perché i sangui misti sono quelli che forgiano meglio qualsiasi corpo. Riprende un po’ le fila di quella città di inizio Novecento fatta di tanti popoli.
In questo secondo volume porti in primo piano gli aristocratici e il senso di rivalsa delle classi popolari. Ha per caso a che fare con la storia della tua bisnonna?
Diciamo che per questo nuovo libro c’è una colonna sonora, che è ‘Procurade e moderare Barone sa tirannia’. Nel periodo che racconto, le tensioni sociali sono sempre più forti. Vengono ammazzati due baroni: chi li ha ammazzati? Perché? Si pensa immediatamente a una matrice politica, anarchica, socialista o comunque di lavoratori che non venivano trattati nel migliore dei modi proprio dai Baroni. È un pretesto per rafforzare quell’avvicinamento verso il 1906, in cui c’è una classe che sta perdendo potere a favore di una borghesia decisamente più illuminata. Serviva questo passaggio di consegne tra una classe e l’altra e l’omicidio dei Baroni per raccontare una città che cambia attraverso Ottone Bacaredda, che sposta il Municipio dalla sede nobile, Castello, al mare, cioè ai commerci, alla borghesia mercantile che rappresenterà la nuova classe al potere di Cagliari.
Le donne sono delle grandi protagoniste dei tuoi romanzi. Penso al libro “Mia madre e altri disastri”, dedicato appunto a tua madre, una donna forte e coraggiosa che ha saputo crescere i suoi figli nel bel mezzo di una burrasca. È piuttosto singolare che un autore, uomo, metta sempre in primo piano le donne.
Credo sia un marchio di fabbrica, è una questione personale. Ho avuto in famiglia dei grandi modelli femminili, a partire da mia bisnonna che però non ho conosciuto. Ma anche la mia nonna, Giovanna, che era una donna eccezionale, che mi ha fatto da madre nei momenti in cui quella ‘vera’, per vicende di salute, ha dovuto lasciare la Sardegna. Ho una madre che è una specie di bulldozer, e una moglie, Grazia, anche lei giornalista, che è una parte fondamentale nella costruzione di questi romanzi, una donna di grandissimo carattere. E infine non va dimenticato che sono stato salvato da una donna, che ha donato i suoi organi salvando me e altre cinque persone. È nel mio sangue la necessità di raccontare donne forti, che fanno delle scelte importanti, che vengono raccontate soprattutto in questo secondo volume, che è un romanzo corale di figure femminili sempre più crescenti.
È interessante poi che hai scelto di accompagnare i tuoi lettori sul “luogo del delitto” con una sorta di meta-romanzo. Per la presentazione del secondo volume siete stati a Bingia Pernis, dove tutto ha inizio. Qual è stata la reazione del pubblico?
Ho aderito a una proposta che mi è stata fatta da Arasolé, sede del romanzo di Francesco Masala. L’abbiamo fatta l’anno scorso ed essendo nel Covid abbiamo dovuto fare dei gruppi ristretti. Io mi diverto da morire, beviamo, mangiamo, parliamo dei libri. È un momento in cui accade quel che io amo: far cadere completamente la barriera tra chi scrive e chi legge, perché in realtà chi scrive è anche un lettore. Si può dire che è un incontro alla pari fra lettori.
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