Chi studia Linguistica sa bene che un qualsiasi termine, suono o segno grafico per entrare a far parte del nostro vocabolario, deve prima diventare d’uso comune. I promotori dell’inclusività della lingua italiana, tra i quali spiccano i nomi della sociolinguista Vera Gheno e della scrittrice Michela Murgia, hanno proposto l’inserimento dello “schwa” (ǝ) nei testi di tutti i giorni – come può essere un articolo di giornale, un tema in classe o una chat tra amici – per includere in un’unica desinenza tutti coloro che non si riconoscono nei generi maschile e femminile. Proposta accolta da tantissimi giovani, che oggi lo utilizzano di continuo, in particolare sui social. Tra l’altro anche Apple ha deciso di inserirlo di default nelle tastiere dei suoi smartphone per abbracciare questa nuova tendenza.

D’altra parte c’è chi si oppone fermamente all’introduzione dello schwa. Tra questi, nientemeno che l’Accademia della Crusca, che interpellata a riguardo, ha detto la sua: per prima cosa il genere grammaticale va distinto dal genere naturale (biologico) del soggetto a cui ci si riferisce. Vi sono tanti esempi di nomi al genere femminile che si riferiscono a individui di sesso maschile e viceversa, che spesso vengono distinti grazie all’uso dell’articolo posto di fronte al sostantivo cui si lega. Secondo gli accademici sarebbe più opportuno utilizzare il maschile plurale come genere grammaticale non marcato (quello cioè che ingloba sia i nomi maschili sia quelli femminili) e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico. Per i linguisti è inutile forzare la lingua in nome di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa sembrare.

L’intervento della Crusca però non è bastato a fermare chi ha stilato i documenti della procedura per il conseguimento dell’Abilitazione scientifica nazionale per accedere alla carica di professore universitario di prima e seconda fascia. Nei verbali in allegato, infatti, salta all’occhio l’uso dello schwa e dello schwa lungo (з). Un modo per “dare una chance” al segno grafico anche nei documenti ufficiali? Forse. Fatto sta che questa scelta non è piaciuta a tanti linguisti ben noti nel panorama universitario italiano, che hanno quindi deciso di lanciare una petizione online “Lo schwa? No grazie. Pro nostra lingua”. L’iniziativa è stata lanciata da Massimo Arcangeli, esperto linguista e docente all’Università di Cagliari, e ad oggi ha raggiunto oltre 7300 firme.

“Siamo di fronte a una pericolosa deriva – scrive Arcangeli -, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata” non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche”.

“I fautori dello schwa – prosegue il docente dell’Ateneo cagliaritano -, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali “lui” e “lei” con “ləi”, e sostengono che le forme inclusive di “direttore” o “pittore, “autore” o “lettore” debbano essere “direttorə” e “pittorə”, autorə” e “lettorə”, sancendo di fatto la morte di “direttrice” e “pittrice”, “autrice” e “lettrice”. Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili. Nel latino classico “pictrix”, come femminile di “pictor”, non esisteva. Una donna che facesse la pittrice, nell’antica Roma, doveva accontentarsi di perifrasi come “pingendi artifex” (‘artista in campo pittorico’)”.

“C’è anche chi va ben oltre. Gli articoli determinativi “il”, “lo”, “la”, poiché l’italiano antico, in usi che oggi richiedono “il”, poteva prevedere al maschile singolare la variante “lo”, si pretende che convergano sull’unica forma “lə”, e i rispettivi plurali (“i”, “gli”, “le”) che confluiscano in “l3”, col secondo carattere che non è un 3 ma uno schwa lungo. Entrambi i segni, lo schwa e lo schwa lungo, sono perfino finiti in ben 6 verbali redatti da una Commissione per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia. Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la “u” in “Caru tuttu”, per “Cari tutti, care tutte”), che si vorrebbe introdurre a modificare l’uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività. Lo schwa, secondo i sostenitori della sua causa, avrebbe anche il vantaggio di essere pronunciabile. Il suono è quello di una vocale intermedia, e gli effetti, se non fossero drammatici, apparirebbero involontariamente comici. Peculiare di diversi dialetti italiani, e molto familiare alla lingua inglese, lo schwa, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza”, conclude Arcangeli.

Con lui ci sono tante altre firme ben conosciute in ambito accademico e non solo. Tra questi il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, lo storico linguista Luca Serianni, il professor Alessandro Barbero, la poetessa e scrittrice Edith Bruck, il filosofo Massimo Cacciari, l’attore, regista e sceneggiatore Ascanio Celestini, l’italianista Giovanna Ioli, l’insegnante e divulgatrice Yasmina Pani e il letterato e poeta Stefano Carrai.

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