Il covid in Sardegna ha spento i fuochi che vengono accesi per Sant’Antonio abate il 17 gennaio di ogni anno, ma non i forni che producono i dolci confezionati in onore del santo. Se i significati attribuiti al fuoco sono molteplici – l’espressione del bisogno di dominare le forze della natura ed esorcizzare l’ignoto, una sorta di “vittoria sulle tenebre”, oppure rompere il freddo della notte invernale, con un rituale di fertilità sia per gli uomini che per la natura – il cibo sembra essere l’espressione di un dono.

I dolci creati in onore del santo portatore del fuoco sono svariati: ecco su pistuddu, tipico dolce preparato per questa festa, con le decorazioni che permettono di intravvederne il ripieno a base di sapa. Ecco sa cogone de pistiddu e su pan’è saba. Il dolce sfornato viene portato in chiesa per la benedizione a cui si aggiunge quella del fuoco: a Bono per esempio le donne fanno girare il dolce intorno al falò, tre volte a destra, tre volte a sinistra, quasi a invocare il santo per domandare grazia, prosperità e abbondanza per tutto l’anno.

Anche a Nule il pane di Sant’Antonio viene portato in chiesa per la benedizione. Sul dolce si modella un porcellino con tanto di campanella d’oro e questo, ridotto in pezzi si conserva per tutto l’anno in casa o nell’ovile. A Ovodda un tempo si confezionava un piccolo pan’e sapa in forma di maialino, dedicato ai bambini.

La tradizione dei falò e quella dei suoi doni fa senza dubbio parte di quel ricco patrimonio immateriale che ancora appartiene ai piccoli luoghi rurali della Sardegna: conserva un sapore antico che unisce popoli e culture in un’unica identità, pur mantenendo le importanti differenze e peculiarità tra i diversi paesi.

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