“Bisogna stare attenti a ciò che si desidera. Ciò che desideriamo a volte diventa la nostra condanna”. Martina Marongiu appoggia lo sguardo sul mare, una tavola piatta appena increspata dal vento di scirocco. E’ il 16 dicembre ma al Poetto di Cagliari sembra primavera. Gli occhi di questa poetessa appena trentunenne (ultima fatica letteraria “Poesie d’amore per principianti assoluti”, Nor editore) cercano l’orizzonte ma guardano altrove. Così come le nuvole rivelano in che direzione soffiano i venti, così gli spiriti più alti e liberi preannunciano con le loro tendenze il tempo che farà.
“La poesia mi ha insegnato la profondità: a guardarmi dentro. Con la fotografia invece ho imparato a guardare fuori, a innamorarmi del mondo e delle persone”. Ma non è di poesia che il mondo ha bisogno, ma di finestre aperte. “Ciascuno ha la sua. Le finestre si devono cercare e si devono aprire: sono i nodi di senso, la ricerca costante. A volte le finestre si devono chiudere, quando fanno corrente. Ma l’apertura più importante, da non chiudere mai, è quella su noi stessi”.
Una ricerca continua. Verso che cosa, Marongiu? “Io mi nutro di assenze. Tutti lo facciamo. Cerchiamo quello che ci è mancato in passato, e che ci manca ancora oggi. Quando si colma un’assenza? Quando ciò che troviamo si incastra bene con ciò che ci manca: è allora che si manifesta la mancanza delle mancanze. Ti accorgi di averla trovata quando tutto il resto passa in secondo piano”.
La poesia però non ha un potere salvifico. “La poesia non deve salvare. Può farci sentire meno soli perché universalizza il particolare, può accarezzarci perché ci accoglie, o ci risveglia bruscamente, può turbarci o scuoterci perché è è molteplice: la poesia delle cose successe e quella delle cose che non succederanno mai. In ogni caso scrivere è sempre un investimento emotivo”.
La poesia come dono, da regalare durante le feste? “No, piuttosto da coltivare nei giorni inutili, nei giorni difficili, in quelli dove ci sentiamo persi. I giorni utili bisogna costruirli con il dolore. L’essere umano è come un galleggiante: lo vedi in superficie, placido sul mare, ma devi capire cosa avviene là sotto. Non bisogna restare fermi al dolore, bisogna dargli un nome, individuarlo bene. Quando si è fatto questo primo passo si è già all’inizio della risoluzione. Come quando a un bambino appena nato si dà un nome, e acquista realtà e verità”.
Le poesie come le canzoni frugano nel cuore, trovando un significato alle storture del reale? “Ci sono canzoni che sanno tutti i cazzi nostri, come le poesie d’altronde. Io quando scrivo sono un bisturi, o una bevuta lenta. Individuo il nodo da sciogliere, e su quel grumo inizio a far luce. Diventa uno shottino perché è qualcosa che quando hai mandato giù d’un fiato alla fine ti ha un po’ cambiato. La mia ricerca è quella di dare un significato alle cose, di bussare alle cose in attesa che queste, misteriosamente, magicamente si aprano: io coltivo quell’attesa”.
Forse il desiderio di abbeverarci di poesia deriva dal fatto che la realtà è deludente, come dicono Paolo Sorrentino e Federico Fellini? “No, non è la realtà a essere deludente: siamo noi che siamo deludibili. Per questo dobbiamo scegliere bene i nostri desideri. Hai mai pensato a qualcosa che desideri fortemente? Se analizzi bene il tuo pensiero, se vivisezioni il desiderio, ti accorgerai che esiste un desiderio più forte, e un altro ancora, come quando da bambino ogni speranza veniva superata da un’altra, apparentemente irraggiungibile. I desideri sono mancanza di luce: e dunque vanno messi a fuoco. Solo chi sa desiderare bene può cercare la felicità”.
E la Sardegna, com’è. E’ una terra in cui è possibile essere felici? “Il problema della Sardegna è il ristagno. La mancanza di contaminazione, che è all’origine della grandezza”. Una difficoltà alimentata anche dalla pandemia e dal lockdown post Covid? “Il guaio non è il virus in sé, ma il Covid dei sentimenti. A volte per proteggersi ci vorrebbe un profilattico del cuore”.
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(Ph: Isabella Atzori)