Si spengono le luci in sala. Il pubblico pian piano abbassa il volume, interrompe quel che si stava dicendo e si concentra sul palco allestito da Bam Teatro, nella Sala Eleonora d’Arborea, in via Falzarego 35 a Cagliari. Sotto una luce soffusa, entra in scena Andrea Bosca, due grandi occhi azzurri, in abiti da Secondo Dopoguerra, in una mano una valigia e nell’altra la terra che non vedeva da anni, da quando aveva lasciato la valle del Belbo per partire in America in cerca di un posto migliore.

L’attore e regista, 41 anni di Canelli (in provincia di Asti) non poteva essere interprete più adatto per Anguilla, il protagonista de “La luna e i falò”, ultimo romanzo di Cesare Pavese, pubblicato nel 1950, e portato in scena per tre giorni consecutivi – da venerdì 10 a domenica 12 dicembre – nel capoluogo sardo. Lui che nella sua infanzia ha vissuto appieno la vita sulle colline piemontesi, nei campi, l’odore dei tigli, la fatica e la fierezza dei contadini.

Nella trasposizione teatrale, firmata dal regista Paolo Brigaglia, e dallo stesso insieme ad Andrea Bosca nell’adattamento del testo, c’è il rapporto tra passato e presente, ci sono gli amici di una volta che torniamo a far visita per vedere se si può recuperare qualcosa del tempo che è stato, oppure no, oppure è meglio lasciar andare e accettarlo così com’è.

L’attore piemontese ci mette del suo, attraverso le pagine scritte da uno degli autori fondamentali della letteratura italiana contemporanea, racconta di sé e delle sue aspettative, della trappola dei ricordi, in cui spesso ci si ritrova ingabbiati. È un’immersione che Andrea Bosca vuol fare a tu per tu con gli spettatori, finalmente di nuovo insieme.

Non c’è alcun effetto scenico, solo la voce di Anguilla, che ci lascia liberi di immaginare, di aprire i cassetti che abbiamo pensato di poter chiudere per sempre, e che invece tornano ad aprirsi per farci fare i conti con quel che eravamo, e con quel che oggi vorremmo essere.

foto di Francesca Matta

Venerdì c’è stata la prima dello spettacolo “La luna e i falò”, tratto dall’omonimo romanzo di Cesare Pavese. Com’è stato tornare a teatro?

È stato bellissimo perché qui, cambiando la prossemica del luogo, senza usare il microfono ad esempio, in un luogo più raccolto, cambia completamente l’emotività dello spettacolo. Abbiamo voluto fare uno spettacolo di immaginazione, perché non c’è niente in scena: ci sono solo io col mio costume, che stratifico a seconda delle parti dello spettacolo, quindi a seconda di come mi vesto e mi svesto, divento dall’uomo grande che ha fatto i soldi a un bambino che non era nessuno e così via. Non è che vedi delle colline vere, te le devi immaginare. Nella verità dello scambio a voce nuda mi sembrava che ci fosse un’attenzione molto viva, umana. Questo è uno spettacolo che è stato fatto occhi negli occhi. Quando l’abbiamo impostato, la prima volta, c’era mezza sala accesa, lo spettacolo inizia come una chiacchierata come stiamo facendo io e te adesso, poi pian piano mentre parliamo comincia tutto il racconto. Di fatto mantiene nella struttura quel lato di confessione a cuore aperto che mi sembra essere la scrittura più interessante di Pavese. È uno che parla ma nello stesso tempo ti dice delle cose molto profonde, intime e personali. Certo, le dice come un uomo degli anni Cinquanta che ha certi mezzi riflessivi e non altri, però è uno onesto. Mi ricordo benissimo Paolo (Briguglia, ndr), che durante le prove a un certo punto mi fa “mi manca Anguilla”, cioè gli mancava quell’attitudine, quel modo di fare, che Anguilla è, che è molto franco, diretto, amichevole. È un buon amico, e a volte hai bisogno di un buon amico per poter dire delle verità profonde, anche scomode, che è parte della nostra storia. In fondo io la vedo anche così, come una storia di due amici che si rincontrano, si testano entrambi, perché è facile essere amici quando vent’anni fa tutto era più o meno giochiamo insieme, poi la vita ci mette di fronte ad altre scelte, altri bivi. Chi sei dopo vent’anni? Mi posso ancora fidare di te? Posso veramente dirti tutto? Posso essere cuore a cuore come eravamo una volta? Gli esseri umani si annusano.

Il romanzo di Pavese parla anche del rapporto tra passato e presente. Che rapporto ha con queste due dimensioni?

Io ho un rapporto col passato un po’ particolare, perché a volte mi ci trovo imprigionato e mi costa smettere di cercare di risolvere cose che sono accadute nel passato, però per fortuna mi son scelto un mestiere che mi obbliga a stare nel presente. Una mia collega, durante le riprese di una serie televisiva, una volta mi aveva detto “ma tu sei sempre altrove tranne quando reciti” e io le avevo risposto “sì, son sempre altrove tranne quando recito”. È un problema? O è anche una cosa bella? È anche un gran complimento. La verità è che nella vita ho imparato a stare nel presente sempre di più. Questo è anche parallelo a una caduta delle illusioni, non delle speranze, però sì ho imparato che il passato si muove, il passato non è fisso, si riscrive. È il racconto che facciamo, non esiste più. Come dimostra anche lo spettacolo, tu torni indietro in un posto pensando di rivedere certe cose, e le rivedi, ma non è tutto così rassicurante. E alla fine forse, stando nel presente, hai la possibilità sia di fare un cambiamento o di vivere ancora, perché all’epoca tu non ci pensavi al passato, vivevi il presente. Il rischio poi è di rimanere intrappolati.

Cesare Pavese era piemontese come lei. Tratta di temi universali, certamente, ma crede che un altro attore l’avrebbe potuto interpretare allo stesso modo rispetto a uno che arriva dal suo stesso contesto?

Rispetto a questo c’è una risposta linguistica. Mi son sempre confrontato con la lingua italiana che è una lingua culturalmente nuova rispetto a quell’altra che invece viene parlata da millenni su quelle colline. Pavese non ha mai fatto niente di regionalistico, è sempre stato un esperimento di poesia in prosa, c’è una grande scrittura. Però è stato bravo, e lui lo diceva proprio: “Però io questa cosa della Divina Commedia la voglio fare, ma in bocca a un contadino, a una persona che suda”, che lui aveva visto quando era bambino. Secondo me è importante che l’interprete di questa cosa venga da lì, non lo nascondo, l’ho scelto apposta, perché io queste espressioni le conosco da quando sono piccolo, quindi si interseca perfettamente con la poetica dello spettacolo, e poi perché quella lingua lì non la parla nessuno, perché quella scrittura lì, tante volte non la ritrovo, così alta, nei lavori. Però devo ammettere che più ci metto le mani, e più vedo l’universalità. In realtà lui è stato local per quanto riguarda l’ambientazione, ma questo poi l’ha fatto esplodere. Come hanno fatto tutti i grandi autori, hanno scritto delle cose che conoscevano, le hanno ambientate in posti che se non conoscevano si sono molto bene informati, ma quasi sempre ti portano la verità su quello, per poi raccontare delle cose veramente profonde che riguardano tutti. E su questa cosa qua, se io l’avessi portata in dizione, non sarebbe stata la stessa cosa, sono contento di portarlo in Italia con quella lingua, con quella struttura della frase, con quella struttura mentis, perché in realtà sotto c’è Orazio, perché in realtà sotto c’è Hemingway, c’è tantissima altra roba.

Lei ha interpretato un ricercatore nel film “Trafficanti di virus”, che riprende l’autobiografia di Ilaria Capua. Oggi quella del ricercatore è vista come una figura un po’ losca, che tratta con i poteri forti. Perché secondo lei?

Perché il Covid è stato l’ultimo atto di un processo che si è attuato negli ultimi anni, dove si è parlato di merito ma non si è riconosciuto il merito, e si è parlato di fiducia ma si è distrutta la fiducia, perché non c’è più un rapporto corporale con gli altri, che è quello su cui costruisci la fiducia di base quando sei un ragazzo. Ed è quello che invece crea la fiducia a teatro, perché noi siamo nello stesso posto, condividiamo le stesse cose, condividiamo la stessa aria, con tutti i rischi del caso in questo momento. Questa mancanza di fiducia è un tema fondamentale, perché sfiducia le persone che la comunità ha designato come quelli che esplorano in una direzione per cui non tutti hanno le capacità e le competenze per poterlo fare. Se un domani possono sfiduciare un attore dicendo “eh vabbe lo posso fare anch’io”, ci ritroveremo a dire eh però la scuola non serve, i tuoi vent’anni di lavoro non servono e così via. E questo abbassa il livello di tutta la comunità. Il lavoro che bisogna fare è quello di ricostruire la fiducia, infatti questa storia è la storia di una ricostruzione di una fiducia, di due amici che si possono raccontare veramente com’è andata nella loro vita, cos’è successo dopo la guerra e durante la guerra. E la stessa cosa noi qua la facciamo adesso, cominciamo di nuovo a rimettere piede nello stesso posto e condividere una storia, che poi ci ricorderemo: quel giorno sono stato là, con quelle persone, ho fatto questa cosa, mi sono fidato.

Sta lavorando anche “Romanzo radicale”, che uscirà nel 2022, dove interpreta Marco Pannella, un personaggio sui generis. Cos’è la cosa che più di tutte dovremmo ricordare di quest’uomo?

L’amore per la politica, in assoluto. L’amore incondizionato e senza freni per la collettività, a costo di non essere compreso o ascoltato. Quello di Pannella è un viaggio straordinario proprio per questo. Era radicale non perché faceva i numeri, ma perché era veramente radicale in quello che credeva.

Secondo lei c’è qualcuno oggi che potrebbe prendere la sua eredità politica?

Sì ce ne sono, sono più sconosciuti. C’è un ricambio, in questo momento. Tolte le altissime cariche, non saprei indicarti un nome, ma mi rendo conto che loro saranno sconfitti dalla Storia se non cambiano. Pannella sapeva ascoltare la gente.

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