L’intervento | Gigliola Sulis*
Le polemiche di questi giorni ci ricordano che le scuole riflettono gli elementi strutturali della società in cui sono inserite, comprese le dinamiche, anche inconsapevoli, di natura classista e razzista. Stupisce e preoccupa che, nei casi di cui ha discusso la stampa, non si percepisca un’attenzione e una sensibilità specifiche al problema, né si menzionino tentativi di cambiamento in senso democratico. I fenomeni migratori sono recenti, ma, se pensiamo al classismo, era già così quando andavo alle superiori io, negli anni ottanta, e, prima ancora, tra negli anni tra i Cinquanta e Settanta, quando studiava Sergio Atzeni (1952-1995).
La sua opera è fortemente centrata su Cagliari, e molti sono i passi in cui le barriere sociali della città sono messe in luce. In diversi casi questo avviene attraverso lo sguardo e le esperienze dei bambini e degli adolescenti, sia in inchieste e articoli di giornale sia in romanzi e racconti.
Gli scritti giornalistici, per esempio, sono una vera e propria miniera di informazioni sulla Cagliari degli anni Settanta. Per lungo tempo Atzeni ha sperato di diventare giornalista professionista; è appena ventenne quando scrive in cronaca per diverse testate sarde, e quindi anagraficamente molto vicino agli studenti, essendosi diplomato al Siotto nel 1971.
Alcuni articoli denunciano proprio le difficili condizioni in cui si trovano gli studenti fuori sede, i lavoratori, i figli dei ‘ghetti’ delle periferie, e la disattenzione per le loro esigenze, quando non l’aperta discriminazione, da parte di docenti e presidi, ingranaggi di un sistema scolastico che, al di là delle apparenze democratiche, continua a non contemplarne la presenza.
‘Fin qui niente di anormale, se vogliamo – scrive in un articolo del 1974 – ché tutto rientra nella logica di una scuola che seleziona brutalmente, per sua stessa struttura e al di là delle volontà individuali, i figli dei lavoratori, a cui viene richiesto un sacrificio tante volte maggiore di quello a cui sono sottoposti ragazzi di differente estrazione sociale’ (Maturità: non ammesso perché fa lo sguattero, “Il Lunedì della Sardegna”, 17 giugno 1974, in Scritti giornalistici, Il Maestrale, 2005, p. 238).
Le indagini giornalistiche del giovane pubblicista sedimentano nei decenni e danno linfa alle storie del narratore. Le riflessioni e i ricordi sulla scuola confluiscono soprattutto in Campane e cani bagnati, ispirato a un’esperienza vissuta in prima persona: la prima occupazione di un liceo cittadino, il Siotto, nel 1970. Tra i protagonisti del racconto figurano ‘Mesina’ soprannome di uno studente proveniente da Orgosolo, accolto da un’insegnante carica di pregiudizi, Augusto, di ‘un paese del Campidano’, che ‘viaggiava tutto i giorni per andare al liceo’, e Antonio Sias, cittadino ma appartenente a un mondo senza spensieratezza, perché, come gli ricorda il padre: ‘Il figlio di un povero se perde un anno sta dicendo che preferisce andare in officina a guadagnarsi il pane che mangia’ (Sì…otto, Condaghes, 1996, p.34). Nel breve spazio di tempo dell’occupazione, rievocata con memoria divertita e un po’ nostalgica del narratore, gli studenti superano le barriere, ma si tratta solo di una pausa nella vita scolastica e nei suoi meccanismi.
Forse le pagine sulla Cagliari classista che più di tutte si sono imposte nella memoria collettiva sono però quelle del romanzo Il quinto passo è l’addio (1995), il cui protagonista, Ruggero Gunale, proietta sul Poetto la divisione sociale della città: ai casotti la Cagliari popolare, e nella ‘fortezza bianca’ del Lido la città che conta. Racconta Gunale: ‘Essere uno del Lido significa appartenere a una cerchia, a un vecchio gruppo di amici figli di amici figli di amici. Un gruppo chiuso all’osso, ricco e potente, quasi impenetrabile per un poveraccio come me, quand’ero bambino.’
E ancora: ‘di mattina guardavo il muro del Lido e pensavo: “Perché non posso entrare?”. E tentavo. A volte nuotavo sottacqua lontano da riva in un momento di distrazione del bagnino guardiano, tornavo verso la spiaggia a nuoto unendomi non richiesto a qualche banda di bambini e allontanandomi da loro appena raggiunta la spiaggia. Curiosavo in giro, guardavo tutto e tutti finché qualcuno mi individuava come estraneo e mi segnalava al bagnino. La procedura d’espulsione era spiccia: venivo ricacciato in mare.’
Oggi i casotti al Poetto sono scomparsi, così come la recinzione in mare, al Lido, ma quanto è cambiata la mappatura sociale della città, in spiaggia come a scuola?
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*Associate Professor, School of Languages, Cultures and Societies (LCS), University of Leeds, è una delle massime esperta di Sergio Atzeni di cui ha curato gli Scritti giornalistici (1966-1995) per il Maestrale (2005)