Balzata alle cronache per il suo intervento riguardo l’introduzione dello schwa come alternativa linguistica per inglobare anche nell’italiano tutti coloro che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile, Vera Gheno è una sociolinguista di padre italiano e madre ungherese, con ben due lingue madri sulle spalle. Ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca e oggi insegna all’Università di Firenze dove è ricercatrice a tempo determinato. Si occupa prevalentemente di comunicazione digitale, tant’è che è stata definita scherzosamente “social linguist”.
Molti suoi interventi su giornali o riviste riguardano il sessismo e l’inclusività nella lingua italiana e proprio di questo ha parlato nella serata di sabato 27 novembre, durante l’incontro “Io sono come mi rappresento. Corpi e parole nella contemporaneità”, moderato dalla docente dell’Università di Cagliari Ester Cois, in occasione della decima edizione del Festival Pazza Idea. Insieme a Giulia Blasi, scrittrice e giornalista specializzata in temi relativi alla condizione femminile e al femminismo, ha trattato “l’arte delle parole” in un’epoca, la nostra, in cui la polarizzazione delle opinioni e la scomparsa delle sfumature la fanno da padrona. Secondo Vera Gheno, si può praticare il dubbio come strumento vincente di discussione e di ragionamento, e distillare così un “metodo” per ricordarci la responsabilità che ognuno di noi ha in quanto parlante.
Partiamo dall’inizio. A suo avviso l’italiano che viene studiato oggi nelle scuole può essere considerato la lingua degli italiani?
No, non lo è mai stato. È sempre stata una astrazione letteraria, più gli italiani hanno iniziato a parlare l’italiano, più la lingua letteraria si è allontanata dalla lingua dell’uso, o viceversa la lingua dell’uso si è allontanata da quella letteraria. Si può parlare di una distanza crescente, però non è mai stata la lingua degli italiani.
È stata definita anche “social linguist” per il suo forte interesse dell’uso della lingua sui social e sul web in generale. Oggi come la descriverebbe?
Be Giuseppe Antonelli parla di e-taliano e dei suoi dialetti, ce ne sono di vari tipi. Casomai l’errore, se mai c’è stato, è stato quello di parlare di un’unica lingua elettronica, mentre l’italiano sul web varia da contesto a contesto: su un sito web si scrive diversamente che non sul blog, su un forum, su Facebook, su Tiktok e così via, il ventaglio è molto ampio. Poi ci sono degli elementi in comune, non solo alle varie varietà di italiano elettronico ma piuttosto sono comuni in certi contesti a tutte le lingue che sono sbarcate online. È una similitudine traversale, quella delle lingue.
A proposito di questo, dato che ci sono vari tipi di linguaggi per ciascun social, non si rischia di creare delle “bolle” per cui alla fine si sviluppa una certa incomunicabilità tra gli utenti di Facebook, ad esempio, e quelli di Instagram?
Come sempre è successo, ci sono le bolle degli specialisti, quelle delle persone che vivono insieme o che fanno lo stesso lavoro e quindi sì ci sono anche le bolle di chi frequenta un determinato social, ma più che altro sono i temi ad essere sempre gli stessi, con toni analoghi. Le echo chamber si formano più sui temi e sui toni con cui si trattano i temi rispetto allo stile, che è una conseguenza.
Cosa ne pensa della campagna di comunicazione sui vaccini? Crede ci siano stati degli errori sulla scelta dei termini, tra cui quelli più utilizzati son stati: lockdown, no vax e Green pass.
Allora io sono una pro vax convinta, quindi anche se non mi avessero detto niente, mi sarei vaccinata lo stesso. Credo che uno dei problemi di questo tipo di campagne è che in qualche modo parla a chi è già convinto e non avrebbe bisogno della campagna e che, proprio per la scelta dei termini, non riesce a convincere chi è “sconvinto”. Diciamo che si continua a polarizzare un discorso che invece andrebbe “spolarizzato”, però poi mi chiedo: esistono delle parole che potevano convincere queste persone? Non lo so, io ho molta perplessità nei confronti delle pubblicità di questo tipo, anche in tempi di pace. Più che di campagne pubblicitarie ci sarebbe bisogno di campagne di informazione, ma informazione non del tipo “se non ti vaccini, non avrai il Green pass” o “se non ti vaccini sei un no vax”. Bisognerebbe puntare sui pro e i contro. In Italia il dibattito è stato subito polarizzato e ora ci sono due fronti che non si parlano e si odiano a vicenda, quindi è difficile sanarlo con una campagna pubblicitaria secondo me.
Il 25 novembre scorso è stata celebrata la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Dal punto di vista linguistico come siamo messi?
Male! Siamo ancora a “i problemi sono ben altri”, quindi delle parole chi se ne frega. Il nostro modo di parlare è intriso di sessismo, misoginia e quant’altro, ricorrendo a stereotipi, pregiudizi vari e assortiti, modi di dire e proverbi sessisti, scarsa presenza del femminile nella lingua e quindi nella società, perché c’è un’interazione tra le due cose. Bene che ci sia la giornata per creare consapevolezza sul problema, ma se poi il resto dell’anno meni la tua fidanzata o anche solo le controlli il cellulare, vuol dire che c’è grossa crisi.
Ha definito l’uso dello schwa come un esperimento linguistico. Come sta andando questo esperimento?
Credo che sia ancora molto presto per dirlo. Per una questione di questo tipo aspetterei almeno cinque, sei, dieci anni prima di dire qualcosa. Ha sicuramente avuto il merito di attirare l’attenzione sulla diversità, che alla maggior parte delle italiane e italiani era sconosciuta. Detto questo, a parte dare visibilità non vedo cos’altro dovrebbe fare, di certo non mi aspetto che venga utilizzato nei documenti ufficiali. Non lo metterei mai in contesti fragili, perché poi crea un problema: a parte alle persone dislessiche, con neuro diversità, a parte agli anziani, ai non vedenti o ipovedenti, banalmente creerebbe dei problemi a chi non ha una competenza linguistica molto alta, quindi secondo me non lo puoi mettere in un documento governativo, ma lo puoi mettere su un poster di un evento culturale ad esempio, in una app o usare in una chat. Dei passi in avanti ci sono stati, ma aspetterei ancora diverso tempo.
Oggi si tende a scrivere sempre di più, le telefonate sono sempre meno e spesso sono sostituite dai messaggi vocali che però durano qualche minuto. Come fa allora un termine ad entrare nell’uso comune?
Ci sono tantissime cose che facciamo ancora oralmente, i social hanno aperto altri canali ma solo i casi patologici li hanno sostituiti. Dopodiché un termine per entrare nell’uso comune non deve necessariamente essere utilizzato dalla maggior parte della comunità, ma da una parte consistente in maniera prolungata nel tempo e in contesti differenziati, quindi questo taglia fuori tutti i gerghi. Ma non c’è bisogno che ci sia una maggioranza, può anche esserci una minoranza grande. Tutte quelle parole che non usiamo ma conosciamo dai telegiornali, ad esempio “idrofilo”, sono nel dizionario non tanto perché le usiamo ma perché ricorrono in altri tipi di testi, quindi non ci vuole solo o per forza l’oralità. Anzi, credo che i database linguistici lavorino prevalentemente su testi scritti o comunque testi che si possono tracciare.
Quindi non c’è questo pericolo.
Be ma pericolo rispetto a cosa? È un segno dei tempi se succede. Credo che il fatto di vedere come un pericolo questi cambiamenti sia legato all’idea che ci sono delle cose immutabili, e che se mutano è un problema. Ma la lingua è uno strumento che usiamo per noi stessi e va dove la facciamo andare, non è che noi agiamo su un sistema che sta bene da solo. Se non ci siamo noi, la lingua non esiste e quindi non riesco a capire nemmeno tutto questo parlare di pericolo, è un lessico quasi bellico che non condivido.
Forse siamo in una fase di passaggio, che provoca in un certo modo questi attriti.
Be fino agli anni ’60 del Novecento non parlavamo l’italiano. È successo tutto a cascata negli ultimi sessant’anni, cose che in altre lingue sono successe spalmate in centinaia di anni, quindi ci credo che faccia paura. Però non c’è nulla di male, finalmente usiamo l’italiano come lo vogliamo usare.
Ultima domanda, in tantissimi Paesi la lingua dei bot è già realtà. Che idea si è fatta?
Lavora sempre su database, più è grosso e più si ha l’impressione che il bot sia euristico, però in realtà non inventa un granché e se inventa non è detto che sia secondo parametri umani. La cosa che si dice sempre della lingua è che il linguaggio umani è “fazi” e questa logica non è perfettamente riproducibile da nessun computer perché per quanto siano complessi son sempre algoritmi. Abbiamo algoritmi che imparano o euristici ma non con l’assoluta libertà e imprevedibilità del linguaggio umano. La cosa bella del nostro linguaggio è che possiamo dire la stessa cosa in infiniti modi diversi, e non è prevedibile come li diremo, talmente tante sono le azioni. Questo la macchina non lo replica, quindi può avvicinarsi molto al linguaggio umano ma è un comportamento che è sempre una mimica di un comportamento che ha una complessità che nemmeno noi sappiamo come funziona fino in fondo. Ricordiamoci sempre che noi non sappiamo esattamente come funziona il cervello umano, lo intuiamo, lo immaginiamo, ma non sappiamo ad esempio quanto c’è di innato, come si attivano i procedimenti linguistici. Ci sono tante teorie ma è ancora un grande punto interrogativo. Tutto quello che deriva dall’acquisizione del linguaggio umano è intuito, ma non mappato alla perfezione.
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