Come una brezza leggera, il primo romanzo di Alessandro Zorco, apparentemente è un testo semplice e gustoso. Una lettura fresca e sarcastica, una metafora arguta. E invece no: è un saggio di antropologia esistenziale, è un libro di denuncia, e non soltanto per la complessità dell’argomento, per la sfida linguistica, ma proprio per la qualità, la tormentata qualità della sua prosa. In un primo livello frizzante e divertente; in un secondo amaramente aspra, asciutta e secca, come la scoperta del reale.
Alessandro scrive frasi lapidarie, di periodi essenziali, che diventano piccoli aforismi.
Ampie parti del suo discorso appaiono territori paludosi, in cui si fatica a procedere, ci si impantana, e in cui capita al di veder scomparire del tutto la strada, per poi osservarla riemergere qualche pagina dopo: con la spiacevole sensazione che ciò che riaffiora sia un tratto principale già visto altrove, già percorso nella realtà, mentre il tratto secondario sia rimasto indietro chissà dove.
Si va veloci aggrottando le sopracciglia, ci si ferma per fare il punto e poi si prosegue un po’ perplessi. Si corre con fiducia e poi succede: arriva, improvvisamente, un aldilà sociale, una consapevolezza nuova, una traccia nitida come il percorso di una mappa cifrata, che serve a creare una nuova consapevolezza. Cominci ad accorgerti che puoi superare delle soglie che prima neanche vedevi, fai passi da gigante: sali e ti accorgi che non è nemmeno una gran salita, e poi tutto diventa chiaro.
Quando sei arrivato alla fine senti come il rumore di un sasso lanciato nel vuoto, un macigno che attraversa un sistema di condizionamenti potente, capillare, corrotto: il conformismo di un’Isola senza passioni, il malaffare scambiato per imprenditoria, l’ignoranza diventata valore, la personalità diventata parodia, la vita trasfigurata in varietà, e di quel sasso assapori il movimento d’aria – come una brezza leggera.
Alessandro attraversa il deserto trasfigurandolo, come Saint-Exupery con il suo Piccolo Principe. Vedi il sorriso che nasconde il sasso. Ma il tiro è preciso, e va a bersaglio: colpisce quando la risata si è spenta. E allora, chiuso il volume, si resta solo con l’amaro in bocca.
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