Ho letto con vivo interesse l’intervento del direttore Garau sulle condizioni di declino in cui versa l’Isola, e in particolare la situazione di declino del nostro welfare. Non concordo tuttavia sulle cause che avrebbero portato alla crisi, attribuite al cosiddetto “ordoliberalismo”. Ossia una branca del pensiero liberale coniata in Germania nel secondo dopoguerra grazie ad accademici del calibro di Eucken, Ropke e Von Rustow.
Garau suggerisce l’idea che questa corrente di pensiero avrebbe spinto anche la nostra politica a supportare meno i servizi pubblici. Non è corretto tuttavia ritenere che l’Isola sia in crisi a causa di una riduzione del livello di intervento pubblico nel finanziare i nostri servizi, tra cui, la sanità. Come confermano pure i report annuali del Crenos e della Banca d’Italia, i dati indicano invece che la spesa per i servizi al cittadino non solo non ha subito battute d’arresto, ma anzi non accenna a diminuire. In primis le prestazioni pensionistiche, derivanti dai trasferimenti statali; e inoltre la sanità regionale, che ha ormai ampiamente superato gli abituali 3,4 miliardi di euro all’anno. E che con la crisi pandemica si stabilizzeranno presto a 4 miliardi.
L’intera Isola gode del 59,9% di spesa pubblica sul PIL. Non c’è settore privato che non riceva sussidi: dal comparto agropastorale sino all’artigianato, passando per gli studi professionali. Incluso il settore ricettivo, l’unico segmento di economia sarda meno esposto di altri, ma comunque inquinato dall’ingombrante presenza pubblica, che deprime la competitività di un’economia regionale che avrebbe bisogno di uscire dalla cultura dell’assistenzialismo per scoprire quella della competitività. Senza cui la Sardegna non si svilupperà, e i nostri giovani continueranno ad emigrare, aggravando i tassi di spopolamento e di invecchiamento.
Al di sotto delle Alpi, l’ordoliberalismo non ha dunque alcuna responsabilità per le gravi inefficienze del nostro welfare, che derivano invece da un altro insidioso indiziato: il keynesismo.
Una scuola di pensiero della macroeconomia che la politica italiana (e sarda) ha declinato in termini estremamente negativi, essendo diventata la foglia di fico con cui giustificare ogni incremento di spesa pubblica, con finalità elettoralistiche, nel vano tentativo di risanare singole aziende fuori mercato o interi comparti economici depressi. Il caso Alitalia è uno dei più celebri, ma non l’unico. Il pilastro ideologico su cui la politica orienta la propria azione si basa infatti sull’idea, del tutto sbagliata, che ad un massiccio impiego di spesa pubblica corrisponderanno automaticamente servizi migliori.
Al contrario, uno smodato utilizzo della spesa pubblica incrementa solamente le zone d’ombra in cui si alimentano sprechi, corruzione, appalti onerosi ed una maggiore presenza del clientelismo politico che intermedia tali risorse, generando un abbassamento degli standard qualitativi dell’organizzazione e della produttività deputata ad erogare i servizi alla cittadinanza. Non a caso, uno studio di Rizzo e Secomandi (2020) su dati Ocse ed Eurostat certifica che nella sanità, a parità di costi, un posto letto in Germania costa mediamente 138mila euro, rispetto ai 260mila euro dell’Italia. Mentre vari opinionisti accusano disservizi “causati” da austerity immaginarie imposte dall’Unione Europea.
Tutto ciò ci offre una dimensione della costosa inefficienza burocratica che grava quotidianamente sulle spalle dei contribuenti. E che viene attivamente supportata, sul piano culturale, da una moltitudine di giornalisti, romanzieri e commentatori restii all’osservazione dei dati.
Apprezzabile dunque la volontà di questo spazio nel valutare nuovi strumenti di interpretazione per comprendere il declino del nostro territorio. Ma come fermare questo declino? Purtroppo non esistono particolari ricette magiche in grado di rimettere in sesto la nostra economia e i nostri servizi pubblici in tempi rapidi. L’unico antidoto possibile al veleno dell’assistenzialismo consiste nell’adottare una nuova cultura della responsabilità, che dovrebbe contaminare sia l’opinione pubblica che la nostra politica.
Questa cultura dovrà trasformare in vergogna la costante richiesta di trasferimenti pubblici, e in orgoglio la volontà di formare meglio le nuove generazioni, affinché possano studiare e specializzarsi in loco senza abbandonare gli studi. Per poi riversare il loro sapere in nuovi investimenti, che saranno possibili solo se esisterà una fiscalità a misura di imprese, la quale consentirà pure di accrescere la quantità e la qualità degli investimenti extraregionali nell’isola. In defnitiva, abbiamo bisogno di più “ordoliberalismo” e di meno “keynesismo”.
Adriano Bomboi, saggista e divulgatore, è autore del volume “Problemi economico-finanziari della Sardegna” (Condaghes) e di altre pubblicazioni, nonché fondatore del portale autonomista SaNatzione.eu.
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