Tra i principali esponenti della scena musicale indie italiana, Vasco Brondi è arrivato in Sardegna domenica scorsa “in cerca di ispirazione”, come ha scritto sul suo profilo Instagram appena atterrato. Con i suoi scatti ha immortalato le tappe più suggestive del suo soggiorno nell’Isola, che si è concentrato prevalentemente nella costa ovest, ostaggio del maestrale e di tanti colori.
In occasione del festival cinematografico How to film the world, che si terrà nella Grande miniera di Serbariu a Carbonia fino al 10 ottobre, il cantautore nato a Verona nel 1984 ma emiliano d’azione – vive a Ferrara da quando era solo un bambino – è stato ospite dell’evento, dove nella serata di ieri ha suonato in acustico qualche brano del suo nuovo album “Paesaggio dopo la battaglia”, prodotto insieme a Federico Dragogna de I Ministri. Una serie di tracce decisamente più intime e personali rispetto a quelle a cui ci aveva abituati al suo esordio nel 2008 quando, appena ventitreenne, si faceva chiamare Le luci della centrale elettrica con l’album “Canzoni da spiaggia deturpata”, vincitore della Targa Tenco come migliore opera prima, il premio FIMI, il premio MEI, il premio Musica & Dischi e il premio Fuori dal Mucchio della storica rivista di musica Il Mucchio Selvaggio.
Da quel momento viene riconosciuto come promessa emergente tra i giovani cantautori italiani e apre i concerti di artisti come Afterhours, Subsonica, BlondRedhead, Notwist, Adam Green e Vinicio Capossela. I suoi testi raccontano la sua generazione perduta e precaria, aggrappata ai fili del telefono di un call center, gli amori ai tempi della crisi economica, che cercano di farsi spazio, nonostante tutto. Negli ultimi anni, Vasco Brondi si è avvicinato a nomi pop del panorama musicale italiano come Jovanotti, con il quale ha scritto il testo del brano di successo “L’estate addosso”, mentre con Francesca Michielin ha collaborato con voce e musica per il singolo “Cattive stelle”, tra le più gettonate in radio.
Vasco Brondi, erano quattro anni che non lanciavi un nuovo album. Era il 2017 e ti facevi chiamare Le luci della centrale elettrica. Cos’è successo nel frattempo?
Diciamo che fa parte del mio rapportarmi alla musica, l’immergermi e l’allontanarmi, l’espormi e poi il ritrarmi. Ho cominciato ad avere rispetto di questi tempi d’attesa che hanno più a che vedere con i cicli della natura che non quelli delle macchine. Noi siamo talmente abituati a vedere come funzionano le macchine che pensiamo di dover funzionare così anche noi, che premi un tasto e scrivi. Io non mi metto mai nelle condizioni di avere un blocco della scrittura, non mi metto a scrivere se non ho qualcosa. Credo molto in quei tempi dove leggo, viaggio, studio, suono ma per i fatti miei, scrivo ma cose mie, senza sforzarmi d’essere produttivo. Faccio le stesse cose, ma in silenzio.
È un po’ l’antitesi di quel che succede oggi, anche nelle canzoni del tuo ultimo album parli del volere avere successo, utilizzando i canali social. A un certo punto nella traccia “Chitarra nera” scrivi “suoni o fai pubblicità?”. Secondo te è possibile oggi fare quello che fai tu senza trovare un compromesso?
È una cosa che mi chiedo anch’io, in realtà. Per me è inevitabile farlo nel modo in cui lo faccio, però è sicuramente un mondo in grande cambiamento anche per il fatto che non si vendono più i dischi. Si sta evolvendo in altri modi. Ne vedo tanti che non mi sembrano tanto influencer ma pubblicità ambulanti. Mi sembrano esattamente come quando vedi nei film americani quei tipi per strada che hanno appeso il cartonato davanti e dietro, e usano il loro corpo per pubblicizzare prodotti di altri. Credo che non sia proprio quello il fine dell’arte. Credo che sia più qualcosa che ha a che fare con l’esperimento della verità, con l’esprimersi, col liberarsi di qualcosa. Non con il fare pubblicità.
Ti sei fatto conoscere al grande pubblico con dei testi che raccontavano il disagio giovanile, il precariato, la periferia, i call center. Oggi ci sono gli influencer e i rider, che sono un po’ due facce della stessa medaglia.
Io non credo che sia possibile schematizzare così la realtà. Non c’è niente di contrapposto, è tutto molto più complesso. Come diceva Sartre decenni fa “uno non è un cameriere, è uno che fa il cameriere”, quindi uno non è un rider ma uno che fa il rider e magari vuole diventare un influencer. Sono solo identità che se nel momento in cui tu credi di dover coincidere con l’identità del rider sfruttato, con l’identità dell’influencer di successo, che tra l’altro è solo economico, perché poi anche lì è da discutere cos’è il successo in una vita, qual è il punto per essere realizzati in qualche modo. Quindi credo che sia tutto più difficile di così da descrivere. Sicuramente si rischia il fatto di essere in questo momento tutti soli davanti alle stesse dinamiche, che poi è una contraddizione in termini essere tutti soli. Però sicuramente non ci sono più gli operai sotto lo stesso tetto con gli stessi orari, adesso abbiamo tutti vite separate con ritmi diverse, dove dobbiamo cercare di trovare da soli una direzione.
Nei tuoi anni d’esordio Niccolò Contessa alias I Cani cantava “nichilisti col cocktail in mano che sognano di essere famosi come Vasco Brondi”. Che rapporto hai con il successo?
Per me quello che faccio è sempre stato parte di una nicchia, non è mai stato un vero successo travolgente, fortunatamente – e dico fortunatamente perché all’epoca avevo vent’anni – è stato il giusto che sono riuscito a gestire. Già il fatto del passare dal lavorare al bar a tantissime persone che vengono ai concerti che ti fermano per strada è stato già un cambiamento forte. Per me il successo è cercare di fare qualcosa che coincide con le tue necessità, i tuoi bisogni, e che li appaga. Poi credo anche che sia riuscire a entrare e uscire dal proprio equilibrio abbastanza incolumi, non credo che ci sia la pace dei sensi da raggiungere, però la mia concezione di successo con il tempo è sempre più distante da quella che c’è stata insegnata, che è quella di un’espansione illimitata altrimenti c’è insoddisfazione e frustrazione. Quindi anche un musicista deve essere sempre più seguito, suonare a sempre più persone, vendere sempre più dischi, è quella cosa lì. Eppure c’è gente che si butta dalle finestre pur avendo tutto ciò, quindi sappiamo che non è quello il successo. Forse so quello che non è il successo: un lavoro di tutti giorni, è il lavoro di una vita capire cos’è il successo.
Tu comunque ci sei riuscito, a fare quello che volevi fare. Quanto ti è costato?
Anche questo per me è stato abbastanza inevitabile perché per me era un sacrificio ben più grosso lavorare. Ho iniziato a lavorare a 17 anni fino ai 23, quando ho fatto il primo disco lavoravo tutte le sere, prima in un ristorante poi in un bar, e quello è stato per me un grande sacrificio. Sono voluto andare via di casa, volevo studiare ma poi ho smesso di studiare… È stato faticoso. È anche far parte di una società dove niente è gratis, ti devi arrangiare e anche presto. Poi per me è stato seguire questa grande spinta che avevo, quindi – una cosa che non consiglierei a nessuno – a un certo punto mi sono chiuso tutte le vie di emergenza possibili per fare questa cosa che volevo fare. Quando ho iniziato a registrare il primo disco, in cui già ero sicurissimo di me, avevo incontrato Giorgio Canali che mi aveva ascoltato per caso dal vivo, mi ha detto “guarda il tuo disco te lo registro io”, poi per registrarlo mi sono licenziato, lui si è incazzato di brutto dicendomi “guarda la tua merda piace solo a me e a te, quindi non si va da nessuna parte”. Io comunque ero davvero molto molto convinto di quello che stavo facendo. Poi dopo mi ci sono buttato a capofitto per due, tre anni, infatti quando sento musicisti che mi mandano le cose dicendo che con un piede fanno l’università, con quell’altro vogliono fare teatro, con quell’altro vogliono fare un’altra cosa e poi vogliono suonare, mi viene da ridere. È una cosa che o ti ci metti anima e corpo, una questione di vita o di morte, oppure non farla. E tra l’altro va benissimo non farla.
Sarebbe stato lo stesso se non ti fossi trovato in Emilia-Romagna, terra di grandi cantautori italiani?
Guarda non lo so effettivamente, non lo so proprio. Mi rendo conto che lì ho avuto la possibilità di incontri, non fisicamente, con chi cantava e scriveva di quelle terre. Penso a Gianni Celati, Andrea Pazienza, Pier Vittorio Tondelli, i CCCP, anche Guccini, anche se per me già il fatto che era di Bologna non era come dire che era della provincia. Per me è stato importante quando ho visto che la mia cittadina poteva andare bene per scrivere le canzoni, però allo stesso tempo la grande fortuna non è stata tanto l’Emilia-Romagna, ma è stata la provincia, avere questa grande noia che mi avvolgeva. Benjamin diceva che la noia è la soglia delle grandi cose, è una grande fortuna essere in un posto dove non succede niente perché ti rendi conto che quella cosa che vuoi far succedere devi farla tu, per farla succedere. Non arriva altrimenti e non c’è intrattenimento. Ecco, credo che l’eroina del nostro tempo sia l’intrattenimento, che spreca l’attenzione della gente: i social network, le serie televisive, anche le cose da fare la sera. Questo è uno spreco di talenti enormi, perché in quel tempo lì uno può imparare a suonare una chitarra, a imparare a scrivere, io avevo scritto due libri per me che non sono andati da nessuna parte, ho letto centinaia di libri. Ecco quella fortuna lì è stata quel periodo storico pre social network, nella provincia.
“Amate, fate quello che volete” è una citazione di Sant’Agostino, che scrivi nella traccia “Ci abbracciamo”. Qual è il tuo rapporto con la religione? E perché proprio Sant’Agostino?
Mi interessava moltissimo questa che è una delle sue frasi più conosciute, che è talmente forte che ha superato i secoli per arrivare fino a noi. Mi piaceva questa cosa di mettere in una canzone pop – forse l’unica del mio disco – un’invocazione che potrebbe essere l’unico comandamento, perché rispettato quello non commetti gli altri. Il mio rapporto con la religione, anzi con le religioni, mi rendo conto che cambia con il tempo, perché forse diventa molto più contrastato il mio rapporto con la religione del nostro tempo, che è quella del successo, del materialismo, del potere. Quello mi respinge tantissimo, tutto quello che non è materialismo, mi attrae. Tutto quello che è più terreno e ultraterreno lo trovo molto più reale rispetto a tutte le cazzate che rincorriamo tutto il tempo, quello mi sembra più una ruota del criceto, una corsa senza fine e senza senso. In tutto il resto mi sembra che ci sia qualche scintilla di verità.
A proposito di stare in mezzo alla natura, sei arrivato in Sardegna già da qualche giorno, dove non mancano di certo i contatti con la terra. Dove sei stato? Che impressione hai avuto?
Sono stato nella penisola del Sinis, sono andato a vedere il pozzo di Santa Cristina che volevo vedere da tanto. Mi colpiscono tantissimo queste costruzioni del 1600 avanti Cristo, posti dove noi esseri umani siamo stati per millenni, vedere questo pozzo che è la celebrazione dell’acqua, perché in fondo c’è questa fonte sorgiva, quindi questo rispetto, questo mistero nel costruire questa cosa che è arrivata fino a noi. Non ci sono veramente parole per descriverlo. Poi ho fatto tutto il giro della Costa Verde, fino a qui a Gonnesa, che mi interessava vedere. In realtà in Sardegna sono stato poche volte quando riuscivo a suonare, solo una volta sono stato sette giorni da solo, però mi trovavo dall’altra parte, a est. Ero andato su verso Baunei dove ci sono quegli asini albini in quel monte. Un posto incredibile. Anche adesso mi piace di questa costa di come sia riuscita a passare indenne, nonostante decenni di costruzioni, che lì fortunatamente non sono avvenute, e quindi rivedi il mondo come doveva essere. Questa cosa è un privilegio che solo qua e in pochi altri posti ho potuto vivere. Quando si parla di ambientalismo diciamo che non riusciremo mai a rinunciare a degli agi che abbiamo, mentre abbiamo già rinunciato a tantissimi agi. Abbiamo rinunciato ai nostri paesaggi, ai nostri panorami perché son stati distrutti, abbiamo rinunciato ad aria da respirare sana, che qua ancora c’è, abbiamo rinunciato a bere l’acqua dei ruscelli come si poteva fare prima dell’industrializzazione. Abbiamo rinunciato al silenzio, che qua ancora c’è. Abbiamo rinunciato alle vere ricchezze, mi dispiace essere retorico, ma i veri agi li abbiamo già persi, e invece adesso abbiamo solo le stupidaggini.
Ti faccio l’ultima domanda. “Paesaggio dopo la battaglia” sembrerebbe il titolo perfetto per questo periodo, che ha visto il settore dello spettacolo dal vivo fortemente penalizzato. In Sardegna c’è stato il caso di Salmo che ha scelto di fare quaranta minuti di live senza permesso e ora è indagato. Cosa ne pensi?
Io penso che purtroppo sia sintomatico del fatto che non ci si rende conto che la cultura, in una società secolarizzata come la nostra, è indispensabile. È un anticorpo per affrontare le situazioni difficili. Non è la vecchiaia che rende saggi, è la cultura che ci fa evolvere, è l’arte. A me viene da dire che le canzoni mi hanno rafforzato il sistema immunitario, almeno quello dell’anima. Ecco per me è importante ribadire questa cosa ed è indispensabile che torni. Questo perché viviamo in una società malsana, che non rispetta la cultura e l’arte, che è ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento per aiutarci. Lo sappiamo tutti, quando eravamo chiusi in casa facevamo ricorso a quello per riuscire a passare il tempo incolumi e a passarlo evolvendoci, non solo a lasciarlo passare.
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