“Le città, colte in istantanee che fermano l’effimero nell’eternità dell’immagine, sono vive; la loro aura è la seduzione del sensibile e del presente. Ma le loro case, le loro strade, i volti dei loro passanti hanno delle crepe che annunciano, come le rughe su un viso, lo sgretolarsi della vita e della storia”.
Le città un tempo erano tutte diverse, ammantate da un’aura che le rendeva riconoscibili e particolari, affascinanti e distinguibili fin dal primo sguardo. Ciò che le rendeva uniche era la loro specifica vocazione lavorativa. Genova erano i suoi portuali, camalli e marinai che diedero i natali – già nel medioevo – all’associazionismo e alla filosofia della cooperazione. Torino era una borghesia industriale che guardava all’innovazione, Milano una grande fabbrica della creatività, Parigi un’enorme utopia della Ragione in cui scorreva il sangue della rivoluzione. Carbonia la sua attività estrattiva, Orosei la sua cava.
Oggi le città sono tutte uguali: non c’è poi così tanta differenza tra Cagliari e New York. Il lavoro nei grandi agglomerati urbani è totalmente omologato. Perché ciò che un tempo distingueva Londra da Firenze era la differente declinazione dell’agire umano, ovvero la tecne: la volontà di trasformare il mondo attraverso il lavoro.
Così là dove si conciavano pelli, qui si intrecciavano tessuti; là dove si coltivava la terra per far nascere grano, qui si sfruttava per allevare bestie, o si manipolava per costruire utensili. Questa distinzione operaia, profondamente legata alla conformazione morfologica dei luoghi abitati, si ripercuoteva nel linguaggio, che altro non è che lo strumento che usiamo per delimitare il perimetro della nostra vita, creando la nostra visione del mondo.
Oggi parliamo tutti lo stesso linguaggio perché nelle città occidentali si svolgono solo lavori immateriali. Le fabbriche – la Carioca e la Fiat di Torino, la Campari e la Motta di Milano, la Benetton a Treviso, per dirne solo alcune – hanno smesso di fungere da cuore delle proprie città per diventare magazzini di stoccaggio di merci che vengono lavorate altrove. L’operaio qualificato è stato sostituito dall’operaio non qualificato, un intellettuale indeterminato, e dunque informe, intercambiabile proprio perché privo di specificità, e dunque di status.
L’unica differenza oggi ancora viva, l’unica biodiversità antropologica ed esistenziale, nasce e vive nei nostri piccoli, vituperati, periferici paesi. Qui dove la modernità è fumosa ancora permangono forme d’azione legate alla terra. I paesi, ancora oggi, mantengono un legame con il territorio che Pasolini definirebbe sacro, Heidegger di “cura”. Ma la globalità, che arriva col linguaggio stereotipato, corrode anche quella. E così, come il Babau di Buzzati, gli abitanti dei paesi sono braccati, inseguiti e messi all’angolo dalla storia; eppure provano, coraggiosamente, a galoppare più velocemente, e ostinatamente resistono.
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