Un tocco di eyeliner e il rossetto rosso sulle labbra bastavano a darle quell’aria di outsider in un mondo – quello giornalistico degli anni Settanta – dominato da uomini. Oriana Fallaci, che a soli dieci anni portava le bombe carta nascoste dentro la cesta della frutta al padre e i suoi compagni antifascisti, sapeva benissimo che per arrivare dove voleva arrivare, avrebbe dovuto correre più veloce dei suoi coetanei. Non foss’altro perché era una donna. Ne era consapevole, e iniziò a lavorarci su.
Nel 1967 è in Vietnam durante la guerra, che la stessa definì “una sanguinosa follia”. Fu la prima inviata al fronte italiana donna. La sua prima conquista professionale, e personale. Si fece subito riconoscere con uno stile inconfondibile che, nonostante la sua promessa di “verità dei fatti”, si faceva coinvolgere dalla realtà quotidiana dei luoghi che esplorava coi suoi occhi e raccontava, ricca di dettagli, di impressioni e di commenti che firmava nei suoi pezzi per L’Europeo. Ai lettori, che aveva già conquistato con il suo report sulle donne in Medio Oriente “Il sesso inutile” (1961), sembrava di assistere in diretta a uno degli eventi più sconvolgenti del Novecento.
Fumava, come e quanto i suoi colleghi. Ma sulle sue sigarette, restava quella traccia rossa che non si stancava mai di indossare. Sono tra voi, ma non sono come voi, sembrava dire con un solo gesto.
Oriana Fallaci seppe compiere delle scelte, da donna libera, che all’epoca sembrarono una totale pazzia. Non rivoluzionarie, come si direbbe ora, semplicemente folli. Per prima cosa, rifiutò in toto di sposarsi e avere dei figli perché il suo lavoro non glielo avrebbe permesso. L’obiettivo primo doveva essere la realizzazione di sé, con tutti i mezzi a sua disposizione, poi sarebbe venuto tutto il resto. Forse.
Dopo la sua relazione con l’affascinante corrispondente di guerra da Londra Alfredo Pieroni, la giornalista ebbe una liaison con l’inviato in Vietnam François Pelou, per cui vestì i panni dell’amante. Quando scoprì di essere incinta, abortì spontaneamente a Parigi, cadendo in depressione e tentando anche il suicidio. Un’amara visione della realtà l’accolse, quando lui, di fronte all’ultimatum della giornalista, scelse la famiglia. Lei, di tutta risposta, pensò bene di spedire la loro corrispondenza amorosa alla moglie dell’uomo con cui aveva diviso non soltanto l’esperienza tra i vietcong, ma anche i momenti più intimi.
Il suo vero amore, però, a cui dedicò anche “Un uomo” (1979), fu Alekos Panagulis, intellettuale della resistenza greca contro il regime dei Colonnelli. Una storia appassionata e piena di stima reciproca, che finì tragicamente quando l’eroe fallaciano morì in un incidente stradale, dopo anni di carcere e lotta attiva fra Atene e Firenze. La giornalista giurò che non avrebbe più condiviso alcuna relazione, ma poco dopo arrivò Paolo Nespoli, di ventotto anni più giovane di lei, aspirante astronauta. Vissero insieme a New York per qualche anno, e poi finì tutto ancora una volta, quando lui partì per la Germania per un incarico all’Agenzia spaziale europea.
Non era facile essere una donna all’epoca. Se volevi emergere, dovevi per forza di cose lasciare qualcosa da parte. Nel suo caso, dovette rinunciare a quello che più di tutti, ancora oggi, è ritenuto il simbolo della femminilità, e cioé la maternità. Un tema che la tormentava, l’attraeva e che ricercava nelle figure femminili che incontrò personalmente per il suo “Intervista con la storia” (1974). Tra tutte, Golda Meir, ex primo ministro israeliano negli anni di Ben Gurion, le ricordava sua madre, e infatti non mancarono le domande a riguardo, che resero lo scambio di battute una delle interviste più moderne di quegli anni. Le voci femminili, che in qualche modo avevano cambiato il corso della Storia – e Golda Meir era una di queste – erano quelle che lei voleva indagare più a fondo. Com’era arrivata a questa posizione? Com’era il confronto con i colleghi uomini? Come si destreggiava con i figli?
D’altra parte, si seppe esprimere con altrettanta libertà quando nel 1978 venne approvata la legge sull’interruzione di gravidanza. “Qui si sta parlando di un problema che riguarda principalmente le donne e, come al solito, il dibattito prende avvio da due uomini”, disse durante il programma televisivo A-Z, Un fatto come e perché (1976). “Io mi auguro – proseguì la giornalsita – che stasera ognuno di noi dimentichi che l’aborto non è un gioco politico. Che a restare incinte siamo noi donne, che a partorire siamo noi donne, che a morire partorendo o abortendo siamo noi. E che la scelta tocca dunque a noi. A noi donne. E dobbiamo essere noi donne a prenderla, di volta in volta, di caso in caso, che a voi piaccia o meno. Tanto se non vi piace, siamo lo stesso noi a decidere. Lo abbiamo fatto per millenni. Abbiamo sfidato per millenni le vostre prediche, il vostro inferno, le vostre galere. Le sfideremo ancora”.
Un anno dopo, a Teheran fu la volta di una delle scene più discusse del ventesimo secolo. La Fallaci, dopo averlo apostrofato come “tiranno”, si tolse il chador di fronte all’ayatollah Khomeini, massimo esponente politico – e religioso – in Iran. Un gesto estremo, che la giornalista non ebbe paura di mostrare al mondo intero, per affermare, ancora una volta, la sua condizione di donna libera.
Burbera, irriverente, fuori dagli schemi. Oriana Fallaci seppe dimostrare che, in quanto donna, poteva arrivare fin dove voleva. E lo faceva dall’interno di un sistema che definire patriarcale è un eufemismo. Lei non era una delle tante, non una giornalista qualsiasi, lei era, come ripeteva spesso, uno “scrittore”.
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