Non tutti sanno che Pupi Avati da grande voleva fare il clarinettista in una band jazz. Ci provò per tre anni, suonando per la Doctor Dixie Jazz Band, ma dovette rinunciarvi non appena arrivò Lucio Dalla, che si dimostrò ben più capace e predisposto per quel ruolo. Il regista bolognese quindi iniziò a lavorare come rappresentante della Findus surgelati, i quattro anni peggiori della sua vita, come li descrive nella sua autobiografia. Ma con il capolavoro del cinema italiano “8½” di Federico Fellini capisce di voler fare cinema e inizia a muovere i fili del suo destino affinché il suo nuovo sogno si realizzi.
“È una persona estremamente curiosa”, ci racconta Nicola Baraglia, filmmaker sardo che ha girato e montato le riprese di “Vorrei sparire senza morire”, documentario sperimentale di cinquanta minuti circa sulla vita del regista bolognese, questa volta dall’altro lato della telecamera. Il film nasce da un’idea del rettore dell’Università IULM di Milano, Gianni Canova, e sarà presentato il 7 settembre tra le proiezioni speciali alla diciottesima edizione delle Giornate degli Autori a Venezia.
“La prima tranche di riprese – racconta Nicola – è stata a gennaio 2020, dove abbiamo girato le prime scene tra Bologna e Sasso Marconi, suo luogo d’infanzia. Tutto è partito da lì, dal cimitero di San Leo, dove nasce il cinema gotico”. Dopo i suoi primi due film, Balsamus, l’uomo di Satana (1968) e Thomas e gli indemoniati (1970), che il regista definirà “orgogliosamente provinciali”, è la volta del giallo-horror La casa dalle finestre che ridono (1976), da cui nascerà il filone cinematografico del gotico-padano. Un genere che Pupi Avati farà suo, probabilmente perché si adatta in maniera del tutto naturale alla sua personalità. Un uomo alla costante ricerca della felicità, che si interroga incessantemente sulla morte per scoprire la vita e le sue mille sfaccettature.
“Ci ha portato subito lì, – ci dice Nicola – perché in questo luogo conserva un legame profondo con tutta la sua famiglia. Lui è molto legato alla famiglia. Pensa che nella sua scrivania, accanto a foto di grandi attori e dei suoi premi, c’è la foto della madre”. Donna che sarà fondamentale per la sua carriera da regista. “Quando lavorava ancora a Bologna per la Findus surgelati – continua il filmmaker – per guadagnarsi da vivere, e a volte capitava dovesse fare dei provini a Roma e lo chiamavano, era la madre a fargli da ‘palo’, rispondeva al telefono e si inventava una scusa: ‘No Pupi non c’è, è uscito’”. Sua è stata anche l’idea di prendere una pensione nella capitale, in via Margutta, per fare in modo che le opportunità di carriera non restassero soltanto un bel sogno di un giovane ambizioso della provincia emiliana.
L’incontro fortunato fu con l’attore Ugo Tognazzi, che dopo aver letto il copione gli chiese subito di recitare nel film La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975), dove per la prima volta ebbe nel cast anche Paolo Villaggio, più volte corteggiato dal regista. Tognazzi aprirà a Pupi Avati le “porte del cinema”, durante un incontro fortuito avvenuto a Roma in occasione di una partita di tennis. C’erano tutti, e il regista iniziò a farsi conoscere dai più grandi del cinema italiano dell’epoca. Il resto è noto.
“La bellezza di Roma, come dice Pupi – continua Nicola -, sta nel fatto che nella stessa strada passeggiano persone di grande successo e persone assolutamente sconosciute. Tutto scorre. In via Margutta incontrava spesso Fellini, al quale si era presentato direttamente, e nello stesso posto era riuscito ad assistere ad una proiezione privata del regista, che gli aveva anche chiesto un parere sul film. Non gli sembrò vero”. Ma a Roma, Pupi Avati conobbe anche Pier Paolo Pasolini, con il quale collaborò per la sceneggiatura del film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), anche se per questione di diritti non risulta accreditato.
“Per conquistare la fiducia delle persone – conclude Nicola – rivelava sempre una sua debolezza, la sincerità e l’umiltà sono due cose che ricordo bene dell’incontro con Pupi. Il voler raccontare la sua vita, i suoi luoghi, un cinema che un po’ forse si è perso. Raccontare attraverso le debolezze, è una cosa che si nota tanto nei suoi film”.
Tratto che accomuna, seppure nel suo piccolo, la ricerca del giovane filmmaker e quella del grande regista. Nicola Baraglia, infatti, è partito dal corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Cagliari, “a cui sono molto grato per avermi dato le basi per entrare nel mondo del cinema”, per poi approdare all’Università IULM di Milano, dove ha avuto i primi contatti per realizzare diversi progetti cinematografici. “Uno di questi mi ha coinvolto in Sbrebenica, in Bosnia-Erzegovina, e ha vinto diversi riconoscimenti tra cui una candidatura ai David di Donatello (2014) e il nono posto all’Al Jazeer Film Festival (Doha, Qatar). Il mio lavoro mi ha permesso di viaggiare molto, sono stato in posti straordinari, come New York, San Francisco, Norvegia, ho collaborato a un progetto con Emergency in Iraq, ho visitato l’Afghanistan e il Pakistan per raccontare tante storie di donne che si sono reinventate in situazioni di difficoltà”.
Così come il regista bolognese, il giovane filmmaker ha incontrato tanti protagonisti del grande schermo, ma allo stesso modo è sceso anche ai piani più bassi della scala sociale, dove ha potuto immortalare con la sua videocamera la quotidianità di quelli che lui chiama “gli invisibili”. Un’esperienza che gli ha permesso di arrivare pronto all’incontro con Pupi Avati, che lo ha accolto nella sua intimità come un maestro che deve lasciare pur qualcosa al proprio allievo. “C’erano dei momenti in cui quasi non riusciva a rinunciare al suo posto da regista”, scherza Nicola. Ma c’è una lezione che ha imparato più di tutte: “Alle volte bisogna buttarsi, essere un po’ incoscienti”.
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