“Transumanze” è un film che racconta l’emigrazione dei pastori sardi in Toscana e descrive una comunità laboriosa che guarda al futuro, ma che conserva ancora la sua antica identità. Il documentario è ora in fase di distribuzione da parte della società cagliaritana Mommotty: tappe previste i principali Festival internazionali e proiezioni speciali in giro per l’Italia in collaborazione con le Associazioni dei Circoli dei sardi.
La pellicola è stata selezionata in concorso al DocuMed – Festival Cinéma Documentaire Méditerranéen, e verrà proiettata in prima assoluta a Tunisi dal 6 al 20 giugno 2021. Il Festival propone una panoramica della produzione documentaristica degli ultimi due anni dei paesi Mediterranei e predilige film di creazione che trattino temi sociali, politici e antropologici legati al bacino Mediterraneo.
Premessa. Mentre in Italia esplodeva il boom economico, negli anni Sessanta del secolo scorso, e gli uomini dismettevano i panni della campagna per indossare le tute della fabbrica e gli abiti della modernità, sintonizzati in un altro lasso di tempo sospeso dalla storia, i pastori sardi partivano alla volta della Toscana come alla ricerca di una biblica Terra promessa. “Per fame di terra”, “per cercare nuovi pascoli” o, semplicemente, per dirlo con un’espressione gergale in uso qui, tra i pastori, “per cercare di stendersi”. Quale fu la molla che fece iniziare questa antropica transumanza?
Il film. Il regista Andrea Mura – con Nicola Contini, coautore del soggetto- ha provato a rispondere a questa domanda. E’ nato così il documentario “Transumanze”, prodotto dallo stesso Andrea Mura in produzione associata con la casa di produzione Ginko Film, con il contributo della Regione Autonoma della Sardegna e il supporto della Fondazione Sardegna Film Commission, Società Umanitaria-Cineteca Sarda e Circolo dei sardi Peppino Mereu di Siena. Un film documentario frutto di tre anni di lavoro che fa luce su un fenomeno poco conosciuto e poco raccontato, in Sardegna come in Toscana e spesso, erroneamente, associato a fenomeni che con quell’impresa hanno avuto poco a che vedere, come i sequestri di persona.
“Forse per via del fatto che le industrie casearie erano lì, nell’alto Lazio, o forse perché qualche pastore aveva sentito parlare di grandi distese di terra che venivano dismesse dai mezzadri, fatto sta che circa sessant’anni fa cominciò una massiva migrazione verso queste terre”, spiega il regista. Era l’inizio di un’avventura. Là dove lasciavano montagne difficili e pascoli profumati ma impervi perfino per le capre, arrivarono in questi territori pieni di meraviglia: perfino le pecore sembravano incredule. Come in un romanzo di McCarthy, o di Steinbeck, questi personaggi iconici, profetici ed erranti, si sono stanziati tra Toscana e Lazio: in particolare il film si sofferma sulla Val d’Orcia, in provincia di Siena, con i suoi colli rigogliosi, attraversati nei secoli dai viandanti della Via Francigena.
“Transumanze” descrive la vita di sei famiglie provenienti da sei piccoli paesi sardi, Austis, Busachi, Galtellì, Illorai, Orune e Paulilatino, per metterne in luce la vicenda storica che percorre tre generazioni. A partire da quei primi coloni che imbarcarono mogli e figli, pecore e cani per lasciare l’Isola. “La pecora per questi uomini è un animale totemico, ma anche il capitale che racchiude un mondo” dice il regista Andrea Mura, che aggiunge: “il film attinge anche agli archivi di film di famiglia della Società Umanitaria-Cineteca sarda, dell’associazione livornese 8Mmezzo e dell’Associazione cagliaritana Paesaggi di famiglia; ma trovano spazio anche immagini d’archivio dell’Università di Siena e spezzoni del film “L’ultimo pugno di terra” di Fiorenzo Serra”. Il risultato è una perfetta fusione, romantica ed evocativa, tra passato e presente.
Mura racconta il reale con capacità rara, immergendo la cronaca in una peculiare sensazione sospesa, da presagio biblico, e impiantando una nota di nostalgico romanticismo nel palcoscenico descrittivo della sua narrazione. “Chiamiamoli avventurieri: erano i più coraggiosi, i più audaci, come avviene anche oggi ai nuovi migranti” aggiunge il regista.
“I toscani scoprivano la fabbrica e abbandonavano le terre, grazie ai sardi quelle terre sono ripartite ed è stato mantenuto il paesaggio. Senza di noi qui sarebbero tutti calanchi” spiega uno dei protagonisti del film, che parla con forte accento toscano ma che dice di sentirsi ancora sardo. I suoi figli hanno migliorato il lavoro antico, hanno costruito nuove attività, tirato su grandi imprese. E non hanno perso le radici.
Oggi le mungitrici automatiche e i capannoni industriali convivono con il territorio, i cinghiali e i gruccioni. “Innoche si faeddanta tres libas” dice un pastore che prima della Toscana aveva fatto fortuna in Australia, “qui si parlano tre lingue”, “il sardo, l’italiano e l’inglese”. Qui si canta a tenore durante gli spuntini, qui si gioca alla morra. “Non si perde la tradizione, anzi in alcuni casi si rafforza, come si fosse cristallizzata” spiega Mura. Si lavora insieme in una vita comune, con uomini, pecore e terra, dedicando una cura particolare ai luoghi e ai loro silenzi, rotti soltanto dalla voce degli animali.
Vincere l’iniziale ostilità non è stato semplice. “Ci chiamavano delinquenti, pecorai, e ci vedevano come elementi di una grande migrazione di massa, esattamente come gli italiani vedono oggi quella degli extracomunitari”. Ma chi lavorava è stato accolto. C’è voluto tanto coraggio. Nel periodo dei sequestri di persona arrivavano i controlli negli ovili: due, tre, cinque volte al mese, è durato dagli anni Settanta fino agli anni Ottanta. “Caccia al sardo” titolavano i giornali dell’epoca, con i pastori vittime della generalizzazione e delle mele marce.
Transumanze è anche un film che parla di emancipazione femminile. “Non è un lavoro da donna” dicevano i padri, e invece oggi le figlie dimostrano di saper fare quanto gli uomini. Elisabetta viene da Orune. Parla molto bene anche il sardo. Il suo sogno è quello di tornare un giorno ad Orune, da cui partirono i genitori sessant’anni fa. “Si lavora insieme, uomini e donne. Si vive in campagna. La famiglia resta unita, la donna collabora attivamente alle attività delle aziende”.
C’è Antoni, di Busachi, che ricorda quando costruì il primo capannone: “Venivano tutti a vederlo, a me sembrava il duomo di Milano”. Vivevano senza corrente elettrica, anche per quattro o cinque anni, nei primi tempi: e oggi quei pastori sono diventati degli industriali.
Ma i lupi, reali e metaforici, sono sempre dietro l’angolo. E’ il prezzo da pagare nella vita di frontiera. La battaglia del prezzo del latte, per esempio, ancora non è stata vinta. “Spesso abbiamo la sensazione di alzarci la mattina per produrre debiti” dicono all’unisono. I costi sono alti, gli orecchi della Grande distribuzione organizzata spesso sono sordi. Ma la speranza è il futuro che si accresce avanzando. Capre ieri, pecore oggi. Anche loro hanno conosciuto il cambiamento: vengono monitorate da un Centro genetico di selezione, per migliorarne la produttività. E se un tempo erano solo di razza sarda, ora sono affiancate da capi francesi: stanziali, sono più produttivi e non rischiano di essere assalite dai lupi.
Tornare in Sardegna? E’ la domanda di rito. Scontata la risposta: “Sarebbe bellissimo, ma non è pensabile”. Questione di soldi? No, questione di spazio vitale: “Nell’Isola non ci si può stendere”.