Condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio della moglie avvenuto 19 anni fa in Sardegna, chiede ora la revisione del processo convinto di poter dimostrare la sua innocenza. Comincia una nuova battaglia giudiziaria per Gianfranco Cherubini, il 60enne di Nuoro che sta scontando la massima pena nel carcere di Uta e che non ha mai smesso di professarsi incolpevole.

Si è quindi affidato a un pool di esperti che ha investigato a fondo sul delitto scovando “nuovi elementi, mai emersi prima” che potrebbero portare alla riapertura del processo.

L’istanza di revisione è stata presentata questa mattina ai giudici della quarta sezione della Corte d’appello di Roma, ma l’udienza è stata subito aggiornata al 4 marzo prossimo per un difetto di notifica che ha impedito il trasferimento di Cherubini da Cagliari alla capitale. A raccogliere le nuove prove sono stati Davide Cannella, investigatore noto per esser stato consulente di parte di Pietro Pacciani e Mario Vanni nel processo al “mostro di Firenze”, e Eugenio D’Orio, genetista forense, procuratori speciali di Cherubini assieme al suo legale, l’avvocato Luigi Alfano. L’istanza poggia su tre tracce di sangue e un profilo genetico inedito la cui individuazione potrebbe scagionare un uomo che ha davanti a sè la prospettiva del carcere a vita.

La moglie, Maria Pina Sedda, 42 anni e un grave deficit uditivo, impiegata dell’Ufficio del Registro di Nuoro, fu uccisa il 23 luglio 2002 nella cantina della casa di famiglia, a Nuoro. Gli esperti chiamati da Cherubini hanno analizzato le tracce ematiche rilevate nel percorso a ritroso dalla cantina, in cui Maria Pina venne ritrovata (dal marito, che diede l’allarme), fino alle scale e verso la via di fuga. Quelle tracce, secondo Cannella, D’Orio e Alfano, potrebbero essere ascrivibili al vero assassino. A suo tempo vennero esaminate, ma il quesito richiesto al perito si era limitato a capire se fossero o meno della vittima. Non lo erano, perché il Dna aveva il cromosoma Y che dimostra come fossero necessariamente di un uomo. Ma non venne chiesto se quel sangue appartenesse a Cherubini.

Ora, 19 anni dopo, il genetista del pool difensivo può affermare con sicurezza che le tracce ematiche non erano di Cherubini, perchè da lui sottoposto alla prova del Dna. All’epoca non esisteva una banca dati genetica, ma adesso che c’è la difesa ritiene di poter risalire all’identità dell’uomo che lasciò le tracce di sangue “durante la colluttazione con la vittima”. “Siamo convinti dell’innocenza di Cherubini – dichiara all’ANSA l’avvocato Alfano – e qualora la Corte deciderà di aprire il dibattimento, pensiamo di poterlo dimostrare”.